il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2022
La serie su Wanna Marchi, la donna che ha venduto anche la fortuna, cioè il nulla
“Perché i coglioni vanno inculati, cazzo”. Così berciò Wanna Marchi, la nostrana regina delle televendite, la “geniale imbrogliona” di cui il 4 marzo 2009 la Corte di cassazione confermò la condanna in via definitiva a nove anni e sei mesi di reclusione per truffa aggravata.
Fresca ottantenne, ha scontato la pena al pari della figlia Stefania Nobile, con cui dopo migliaia di ore in video adesso condivide anche la stanza da letto. E Wanna, la docuserie di Alessandro Garramone, prodotta da Fremantle Italia, che debutta il 21 settembre su Netflix. Scritti dallo stesso Garramone con Davide Bandiera, diretti da Nicola Prosatore, i quattro episodi sono il dovizioso e coscienzioso precipitato di 22 testimonianze, 60 ore di interviste e 100 di materiali d’archivio, eppure non danno una risposta al caso Marchi: non sul presunto tesoro messo al riparo, e nemmeno sulla donna che volle farsi dio, “convinta di essere così brava – commenta il suo avvocato – da poter vendere anche la fortuna, cioè il nulla”.
Quando non grida, Wanna ride irridente o piange irridente: è una maschera della commedia dell’arte, è – Wikipedia non perdona – “un personaggio televisivo e truffatrice italiana”, binomio da mandare prima in solluchero e poi sul lastrico gli adepti del culto catodico, in principio beneficiati di dimagranti miracolosi e poi giubilati dai numeri e amuleti del “maestro di vita” Do Nascimento.
Fu Striscia la notizia con Jimmy Ghione a scoperchiare i misfatti, poi arrivò la giustizia, e l’impero Wanna Marchi, già colpito duramente a inizio anni Novanta e risorto dalle creme, pardon, ceneri, cadde per sempre, trascinando con sé la lunga e munifica stagione delle televendite e una teoria di vittime della porta, ovvero del televisore accanto.
Garramone e i suoi – il produttore delle interviste è Gabriele Parpiglia – inquadrano Wanna e Stefania non come artefici, bensì specchi deformi di un Paese che chiede salvezza, ma a suon di talismani auto-avvera la truffaldina diagnosi di sventura: quale bisogno hanno creato e poi soddisfatto madre, figlia e maestro di vita? La temperie di Wanna sta nel nome fatto titolo, da intendersi all’americana: “Voglio”, un American Dream riveduto e scorretto, strapaesano e ingordo, profondo come la provincia e balordo come l’avidità.
Se l’andamento è classico, Prosatore si concede qualche buona trovata: i testimoni plasticamente sospesi tra sorriso e serietà, ché il caso è appunto insolubile, e Wanna sbugiardata da se stessa, con il montaggio che in controtempo usa una sua vecchia risata per sanzionarne il qui e ora. Non ce ne voglia, a bucare lo schermo però non è lei, ma la sua ex collaboratrice Milva Magliano, una dark lady metafisica con licenza di turbare: a quando lo spin-off dedicato?
Accattivante e ambigua, esaustiva ma non conclusiva, Wanna è una docuserie da plauso: interroga senza giudicare, riflette sul medium senza annoiare. Marchi rimane una sfinge (urlante), ma l’operazione funziona: è questa la Netflix che vogliamo.