il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2022
Il Grand Tour tra arte e sacrilegi
Quanto hanno contribuito le antiche rovine d’Italia a salvare l’Italia dalla rovina? Il patrimonio culturale del Bel Paese è immenso. Esagerato. Domina su quello degli altri Paesi e attrae da secoli viaggiatori e valute.
Marinetti, in un suo iperbolico manifesto del 1915 intitolato L’unica soluzione del problema finanziario, sosteneva che l’Italia avrebbe dovuto vendere l’incalcolabile “capitale inutilizzato, costituito dall’enorme patrimonio delle opere d’arte antiche ammucchiate nei suoi musei”. Quindi col ricavato armarsi, industrializzarsi, diventare il Paese più potente e più ricco del mondo e poi ricomprarsi tutto. Ingegnoso paradosso, una specie di Pnrr bricolage.
In realtà la svendita del patrimonio era già iniziata nei secoli. Non in modo massiccio a opera di governi nazionali, ma di funzionari locali corrotti o di nobili proprietari ignoranti, più cinici di Totò con la fontana di Trevi.
Durante il Grand Tour, accanto a quelli che svenivano davanti alle bellezze dell’arte italiana come Stendhal, c’era chi stralunava gli occhi vedendo nell’arte un ottimo affare e ne approfittava per portarsi via patrimoni di inestimabile valore culturale. Così nel 1733 Clemente XII lanciò un editto in cui si faceva divieto di estrarre dal sottosuolo e di fare commercio, senza espressa licenza, di “qualunque sorta di statue, figure, colonne, bassorilievi, vasi, urne… e materia tanto antica quanto moderna, siccome ancora pitture, mosaici, e quadri”.
Il fascino irresistibile che le opere d’arte italiane esercitarono sulla classe colta europea diede vita a quel fenomeno straordinario che va sotto il nome di Grand Tour, un momento storico sul quale Attilio Brilli ha scritto pagine importanti. L’autore riprende il tema nel suo nuovo libro La grande incantatrice (Utet), estendendo la ricerca ad altri periodi e altri soggetti, infatti il sottotitolo dice: “Il fascino dell’Italia per i viaggiatori di ogni tempo”. Un volume colto, preciso, ricco di testimonianze. Un viaggio nella grande bellezza che ha come colonna sonora le riflessioni sull’arte delle migliori intelligenze dei secoli passati.
Il mito dell’arte italiana girava per l’Europa e accendeva i desideri. Una piccola gondola soprammobile e le incisioni di Piranesi furono per Goethe il primo stimolo al viaggio in Italia. James Fenimore Cooper arrivato agli Uffizi si tolse il cappello e si inchinò davanti alle statue che dall’infanzia lo incantavano dalle pareti della sua casa. La comunicazione delle bellezze d’Italia funzionava anche prima di Instagram.
I viaggiatori sedotti dall’arte non sempre venivano accolti come si deve. Montaigne arrivato a Urbino sognava di visitare la biblioteca del conte di Montefeltro. I cortigiani dispiaciutissimi dovettero dirgli che non era possibile, perché avevano perso le chiavi. Dickens a Mantova trovò tutte le chiese sbarrate. La cattiva gestione del patrimonio culturale non è un’invenzione dei nostri tempi.
Ci riferisce Brilli che già nel Medioevo c’erano folle di pellegrini che invadevano Roma, una specie di Grand Tour dei poveri. Nel 1140 era apparsa Mirabilia urbis Romae, un’opera che esaltava le testimonianze della devozione e dell’arte. In San Giovanni in Laterano si esponevano reliquie inarrivabili come il cordone ombelicale e il prepuzio di Gesù Bambino, la verga di Aronne, l’urna con la manna, la tunica della Vergine, frammenti della veste di Giovanni Battista e della tavola dell’Ultima Cena. Neanche Wanna Marchi. E così con la scusa del prepuzio di Gesù bambino i pellegrini avevano un pretesto di fede per viaggiare e ammirare i monumenti di Roma.
Il libro di Brilli mette al centro le opere e i paesaggi attorno ai quali ruotano i viaggiatori in adorazione. Grazie alla vasta conoscenza di quel mondo e di quelle figure l’autore ci riporta un ampio campionario di testimonianze, diari, lettere, ma anche romanzi. Winckelmann, Goethe, Ruskin, Madame de Staël, Henry James, Edith Wharton, Shelley, De Brosses, Hawthorne, Henry Matthews e molti altri. Particolarmente interessante lo sguardo di De Sade. Attorno alle opere ruotano anche figure più vicine a noi, Gabriele d’Annunzio, Marguerite Yourcenar, Cesare Brandi.
Nei momenti in cui la morale prevalse sulla bellezza, arrivarono le foglie di fico a coprire le parti che il buon Dio aveva donato agli esseri umani per dire: non solo lacrime e sudore. Henry Matthews davanti a una statua en feuillage si lamentava di questa barbarie quando una signora italiana avvicinandosi gli sussurrò all’orecchio: “Bisogna tornare in autunno, quando le foglie cadono”.