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 2022  settembre 17 Sabato calendario

Combattere il crimine con i romanzi

«Nei miei romanzi, i cattivi pagano per le loro azioni ma non sono bastardi al 100%. Anzi, c’è una parte di oscurità anche in chi si sente al di sopra di ogni sospetto». Con due milioni di copie vendute, Olivier Norek questa estate ha conteso la testa della classifica a Joël Dicker. Volontario umanitario ed ex poliziotto per 18 anni, il nuovo maestro del noir francese sbarca in Italia con Superficie (Rizzoli) in cui racconta di Noémie, una capitana di polizia con il volto sfigurato da uno sparo, indagando sul rapimento di tre bambini, nella provincia francese più anonima, lì dove si annida il razzismo, «frutto della paura e dell’ignoranza». In questa intervista, l’autore si racconta per la prima volta al pubblico italiano e oggi sarà protagonista di un incontro al festival Pordenonelegge (h21, Ridotto del Teatro Verdi con Alessandra Tedesco). Nipote di un immigrato polacco, nel precedente noir, Tra due mondi, ha narrato l’incubo della Giungla di Calais, immerso nella violenza «ma trovando anche solidarietà, fratellanza e amicizia. Il sublime nel mezzo dell’inferno».
Superficie è ispirato ad un fatto vero. Chi è Babeth?
«Un’amica. Una poliziotta che una notte è stata attaccata con sbarre di ferro. Mi ha confessato: Ho sentito le ossa del cranio rompersi nella mia testa, pensava che sarebbe morta. Ma è sopravvissuta, è uscita dal coma e i medici hanno cercato di restituirle il volto. Due mesi dopo era di nuovo in campo, apparentemente più forte ma con ferite invisibili. Da quel coraggio, nasce la mia Noémie».
Un volto sfregiato e il rifiuto dello specchio. Perché siamo ossessionati dagli occhi degli altri?
«Sì, siamo tutti segnati in qualche modo. Da bambini ballavamo e cantavamo in mezzo agli adulti senza preoccuparci del giudizio, poi uno sguardo cattivo ci ha fatto chiudere un’ala, una parola offensiva ci ha fatto chiudere l’altra e ci siamo deformati per entrare nella scatola che occupiamo oggi, per conformarci meglio alle aspettative degli altri. Noémie viene sfigurata da un colpo di fucile e indaga sul rapimento di tre bambini. Ma prima di tutto, deve accettarsi».
Perché?
«Se non fai luce, non attirerai le farfalle ma questa luce è in ognuno di noi. Un uomo che non sopporta di essere in sovrappeso ne verrà schiacciato. Invece, una donna che accetta il proprio difetto, lo fa quasi scomparire. Ed è ancora peggio con questa nuova generazione sotto lo scacco perpetuo dei social network, offrendoci e mettendoci in mostra».
Prima volontario in campo umanitario, poi capitano di polizia nel dipartimento 93 di Seine-Saint Deniscosa l’ha spinta a scrivere?
«Da bambino non sapevo quale fosse il mio posto. Mi sono occupato della logistica umanitaria nell’ex Jugoslavia e per 18 anni sono stato un poliziotto nel dipartimento più criminogeno della Francia. Volevo essere utile. Alla fine, ho spinto la mia nevrosi all’estremo e mi sono messo a scrivere».
Di solito, nei romanzi, i cattivi vengono catturati. Succede in Superficie. Almeno sulla pagina dev’esserci giustizia?
«Ogni ingiustizia mi fa male allo stomaco. Vero dolore, vera rabbia. Nei miei romanzi, i cattivi pagano per le loro azioni ma non sono bastardi al 100%. A parte alcuni casi molto rari, credo ci sia una parte di umanità in tutti i criminali e viceversa, una parte di oscurità in chi crede di essere al di sopra di ogni sospetto».
Anche in questa provincia apparentemente perfetta c’è puzza di razzismo. Da Jean-Claude Izzo a Norek, è un pericolo attuale in Francia?
«Il razzismo è alimentato dalla paura. Abbiamo paura di ciò che non conosciamo e lo straniero è, per il fatto stesso di essere sconosciuto, e quindi preoccupante. Il razzismo è favorito anche dalla povertà. Un paese senza disoccupazione, senza povertà, permette di accogliere chi ha bisogno. Ma se noi stessi siamo in difficoltà, senza soldi o senza lavoro, allora lo straniero è visto come colui che ci ruberà il lavoro e la ricchezza... Penso che ci siano più persone ignoranti e paurose che razzisti. Lo penso o magari, lo spero».
In parla di Calais e del traffico di esseri umani in mare. Cosa ha visto nei campi profughi?
«Ho trascorso tre settimane nella Giungla di Calais, nel nord della Francia, ho piantato la mia tenda lì e ho vissuto con le diecimila anime che la infestano. Sono stato accolto dalla parte sudanese. Mi hanno insegnato i codici e le regole della Giungla e mi hanno anche protetto. Ma fra drammi e orrore, ho anche trovato solidarietà, fratellanza e amicizia. Il sublime nel mezzo dell’inferno».
Nel precedente libro, Tra due mondi, racconta di una drammatica fuga dalla Siria con un gommone nel Mediterraneo. Perché?
«Mio nonno era un immigrato polacco. Anche lui attraversò l’Europa, a piedi, per tentare la fortuna in Francia. E la Francia gli aprì le braccia. La famiglia Norek è francese da soli 80 anni! Volevo ringraziarlo per aver sofferto solo per offrirci una vita migliore. Non l’ho mai conosciuto, ma non ne ho bisogno per amarlo ed essergli eternamente debitore».