il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2022
Intervista a Jonathan Gottschall
“Le storie fanno molto bene al mondo, come nessuno dubita, men che meno io. Ma dietro tutti i fattori che guidano i più grandi mali della civiltà – polarizzazione politica, distruzione ambientale, demagoghi in fuga, guerra e odio – troverai sempre lo stesso fattore principale: una storia che sconvolge la mente. Questo è il paradosso esplorato dal libro: che le storie sono semplicemente la forza migliore e più costruttiva nella vita umana, ma anche la peggiore e la più distruttiva”. Jonathan Gottschall ne Il lato oscuro delle storie utilizza una mole di materiali e di discipline (letteratura, psicologia, neuroscienza, filosofia) per cercare di affrontare e sistematizzare un tema ineludibile dell’età contemporanea: l’inflazione di storie, la loro capacità di cementare le società, ma pure di annientarle. Perché la propensione a narrare ha modellato la mente umana, e oggi condiziona i nostri comportamenti e le nostre reazioni. È un mondo in cui siamo sepolti dalle narrazioni quello di Gottschall, che aveva scritto un precedente libro sul tema, in cui peraltro esplorava il lato gioioso delle storie (Come le storie ci hanno resi umani) Ma in questo suo nuovo saggio, l’autore (che sarà domenica mattina ospite di Pordenone legge) ha addirittura l’obiettivo, per non dire la pretesa, di “curare questa stupida fiducia” nelle storie, nella speranza “che se comprendiamo meglio il potenziale manipolativo e divisivo della narrativa possiamo fare un lavoro migliore per resistervi”. A un certo punto del libro, Gottschall svela l’esigenza autobiografica (e anche politica) che lo ha portato a scriverlo, quando racconta che nella sua stesura, il ritratto del “Grosso Trombone” (che sarebbe Donald Trump) si è stratificato, è cambiato, ma in qualche modo è rimasto inchiodato all’origine. Per passare dal personale al generale, quel che è certo è che siamo all’acme dello storytelling (l’arte di narrare pervasiva in tutti i settori, dalla politica alla pubblicità), ma contemporaneamente anche al suo punto di rottura. Il potere di “condizionamento” è massimo, ma allo stesso tempo si deve misurare con condizionamenti di segno opposto. Che il tema sia allo stesso tempo abusato, ma cruciale, lo dice il fatto che il saggio abbia provocato una sonora stroncatura sul New York Times da parte di Timothy Snyder, uno degli storici statunitensi più noti. Feroce polemica a seguire. Come dire, anche un saggio sulle storie ha la sua storia.
Ci sono troppi storytelling ed è impossibile fidarsi di loro?
Le storie sono sempre state instabili e pericolose. Platone, 2400 anni fa, voleva bandire tutti i cantastorie dalla sua Repubblica ideale. E ora, per quanto le belle storie possano fare e nonostante tutto il comfort che possono dare, la tecnologia moderna le ha rese più onnipresenti, più potenti e più utilizzabili come armi di quanto Platone avrebbe mai potuto immaginare. La persona media, in un paese sviluppato, consuma quasi 12 ore di media al giorno, per lo più in forma narrativa.
Con quali risultati?
Queste storie – comprese storie di complotti, storie ideologiche, notizie oblique, storie di disinformazione, storie demagogiche e tutto il resto – ci stanno facendo impazzire in entrambi i sensi: ci stanno trascinando in epidemie di intensa irrazionalità e stanno ravvivando la nostra rabbia e ostilità.
Cosa ne pensa delle contronarrazioni di questa fase storica?, i negazionisti del Covid, i no-vax, gli opposti modi in cui è stata raccontata la guerra in Ucraina…
Gli esseri umani combattono in molti modi: calciano, sputano, mordono, prendono a pugni, sparano, bombardano, pugnalano, ma la guerra narrativa è probabilmente la forma più pervasiva e consequenziale di competizione umana. Le persone hanno sempre lottato per dominare la narrazione. Ma ora stiamo vivendo una rivoluzione della comunicazione in cui non c’è proprio alcun ostacolo alla capacità di qualsiasi storia di diffondersi in tutto il mondo, lasciando una scia di persone molto confuse e arrabbiate.
La “realtà” non è altrettanto attraente?
La contesa narrativa tra chi racconta la “verità” e i mercanti di mala informazione/disinformazione è tragicamente asimmetrica. Quasi tutte le narrazioni di mala informazione/disinformazione ben costruite sarebbero film hollywoodiani di successo. Mentre i tentativi di fact checking al massimo documentari per la televisione pubblica.
In Italia si vota il 25 settembre: i politici sono in campagna elettorale su Tik Tok, Instagram, Facebook, tv, giornali. Non sono troppi? Non si arriva a produrre l’effetto opposto?
Sicuramente questo aumenta la confusione e fa parte del Big bang delle storie. Ma poi gli esseri umani hanno una devastante vulnerabilità intrinseca a una narrativa potente. E poi, oltre a questo, c’è un ecosistema mediatico dominato da algoritmi che è interamente progettato per alimentare storie che assecondano tutti i nostri pregiudizi preesistenti.
Una domanda provocatoria: è possibile decidere se una storia è buona o no? Chi può farlo? E per farlo non serve comunque una storia?
Il mio libro passa in rassegna vent’anni di ricerca sui vantaggi intrinseci della storia come strumento di comunicazione e persuasione. Ma il vantaggio non entra in gioco a meno che una storia non sia effettivamente “buona”. Ciò che i critici intendono per “buono” è minaccioso, soggettivo e difficile da definire. Ma quando la gente comune dice che una storia è “buona”, significa per lo più che la storia riesce a creare l’incantesimo del trasporto narrativo, fuori dalle nostre realtà mondane e in mondi di storie alternative, che si tratti di un film di successo, di un documentario d’autore o delle fantasie paranoiche di QAnon. Si tratta di uno stato di coscienza autenticamente alterato: è uno stato di attenzione ravvicinata e rapita ed è anche uno stato di alta suggestionabilità. O per dirla diversamente, uno stato in cui la manipolazione diventa facile.
Lei ha una prospettiva etica, quando invita a non odiare chi racconta storie diverse dalle nostre. Come si fa?
Se vogliamo davvero costruire ponti narrativi attraverso le nostre divisioni dobbiamo resistere soprattutto alla tentazione potente e vertiginosa di raccontare storie in cui noi siamo le brave persone – gli eroi – e le persone dall’altro lato sono cattivi bidimensionali. Così ci stiamo insultando a vicenda. Se non si riesce a vedere l’imperativo etico, bisogna cogliere l’imperativo pratico. Per persuadere i tuoi avversari devi farli vivere all’interno della tua narrativa, e i tuoi avversari non lo faranno mai se gli unici ruoli che offri loro sono Voldemort o il clown.