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 2022  settembre 16 Venerdì calendario

Ore otto e trenta del mattino, inserimento al nido, la tragedia ha inizio.

Ogni tanto la sensazione è quella di chi aspetta fuori della sala operatoria; ogni tanto si apre la porta e invece del chirurgo esce una maestra.
Come va? tutto bene?
Sì, tutto bene.
Spesso si sentono urla, lamenti, qualcosa che cade, altre urla, arrivano i pianti.
Oddio che pianti.
Sarà la mia?
Sì, sembra proprio la mia.
No, non è lei. Lei urla in maniera differente, ha sfumature meno gracchiate. Non singhiozza mai.
E ti rendi conto che l’udito sta alla suggestione come il metadone all’eroina, per una quotidianità che non ti aspettavi. Che nessuno ti aveva mai realmente illustrato. Che nessuno ti aveva mai manifestato, forse per preservarti.
Ore otto e trenta del mattino, inserimento al nido, la tragedia ha inizio.
Se qualcuno vuole riscoprire l’esistenza della solidarietà umana, quella vera, condivisa, emotivamente partecipata, deve entrare nell’inferno del benedetto inserimento.
Il dramma è collettivo, non si scherza, e la sensazione è (in parte) quella che si vive fuori (e dentro?) una sala operatoria: tensione, sospiri, interrogativi, timori, incertezza, lacrime, sangue nel caso di drammi, parole prive di significato come quando i dottori parlano e non sono mai esaustivi come in realtà vorresti.
Dottore, ce la farà?
Allora, i parametri sono buoni, il paziente ha risposto…
Ma ce la farà?
Le dicevo, il paziente ha risposto secondo le previsioni. Però…
E così i genitori sono stremati, schiacciati contro la porta d’ingresso e appesi a emozioni e sospiri.
Distrutti.
Afflosciati.
Con occhiali da sole, scuri, anche quando batte pioggia, con magliette soggette agli effetti della sudarella, non la sudarella dello sportivo, piuttosto quella dello stremato dalla notte in bianco, dove il volto lucido risalta la pelle ridotta a un velo da sposa. Gli occhi si scoprono spiritati, piccoli; piccoli e in fuori e i dialoghi tra genitori hanno un unico tema: la sopravvivenza.
“Anche tu non hai dormito questa notte?”.
“Lascia perdere, da mezzanotte si è svegliato e mi si è attaccato al grido ‘mamma’ ‘mammaaaaaa!’”.
Sussulto di vita: “Anche il mio!”.
Il famoso mal comune regala istanti di serenità, una ruga scompare dal contorno occhi.
“A che ora si è riaddormentato?”.
“Intorno alle 4, ha pure rifiutato l’abbraccio della nonna”.
Il mal comune diventa simile a un orgasmo, ed esce un sibilo di piacere dalle labbra struccate: “Anche il mio!”.
Nel frattempo si apre la porta del nido, tutti zitti, ma esce una donna delle pulizie, che quasi si scusa per essere “solo” una donna delle pulizie, anche perché può toccare la delusione dei presenti davanti a lei.
Falso allarme.
In realtà l’allarme vero è un altro, ed è sottaciuto, trattato con modi cospirativi, indagatori, massonici: capire quali sono i bambini raffreddati.
Ogni genitore finge di salutare affettuosamente gli altri piccoli, “che bello, c’è pure Paolo!”, “guarda, c’è Beatrice”, ma lo scopo della missione è sgamare il reale stato d’umidità sul naso.
C’è muco?
Non è che ha il Covid?
Alla parola Covid si spalanca sempre un fronte di amara riflessione: “Eh, i nostri piccoli sono figli del virus: sono stati troppo in casa con noi, e ora non si staccano”.
Chi ascolta annuisce sempre, è sistematico.
Arriva un’altra mamma: “Ho scoperto un posto dove controllare cosa accade dentro al nido”.
“Giura!”.
“Se ci spostiamo di lato, sotto la scala, dietro il balconcino e incliniamo la testa di qualche grado, allora possiamo sbirciare all’interno. Ma solo se le tende sono scostate”.
“Ma è meraviglioso!”.
“Attente a non farci beccare, le maestre si scocciano”.
Nel silenzio assoluto, con passi rallentati simili a chi, nei gloriosi decenni passati, utilizzava le pattine dentro casa, con i muscoli contratti e lo sguardo da spia sovietica, il gruppo di mamme tenta l’agguato.
Niente.
Le tende sono tirate.
Ore 9.30, le entrate al nido sono terminate, le urla dentro l’aula si affievoliscono, si diradano. Ogni tanto c’è un sussulto, ma nulla di terribile.
I genitori “liberati” si dividono in due gruppi: chi immediatamente fugge con passo deciso, magari con il cellulare posizionato sull’orecchio da combattimento, e chi deve ulteriormente placare il bisogno di condivisione.
I primi schifano i secondi; i secondi un po’ invidiano e un po’ guardano con sospetto i primi, si domandano se classificarli come “mostri” o come testimonial del saggio pragmatismo.
I primi e i secondi hanno in comune un solo dato: l’attenzione verso le maestre.
Le maestre hanno un prima e un dopo, del durante non si hanno tracce tangibili: anche loro sono recluse.
Il “prima” è l’entrata: sorridono, sono loquaci, rassicurano, gli occhi dimostrano vivacità, rispondono alle comuni e normali sollecitazioni della vita, appellano tutti i genitori “papà” e “mamma”, un po’ per coinvolgerli, un po’ per non dover imparare i nomi di battesimo.
Per il “dopo” sarebbe consigliabile un cartello da posizionare davanti al loro petto, con su scritto “tranquilli, sono sempre io: la maestra di questa mattina”; perché per il dopo sono improvvisamente più basse, pallide, la voce alterna toni troppo bassi se uno le chiama al momento delle ninne; troppo alti se è il momento del pranzo. Uno avrebbe l’istinto di abbracciarle per sussurrargli “non fare così, passa pure questa giornata”. E poi fingere che è tutto normale, anche se, in realtà, ci sarebbe tanto bisogno di un buon medico, ma della mente.