Corriere della Sera, 16 settembre 2022
Intervista a Mauro Defendente Febbrari
La sua fama di assottigliatore, perdonate il neologismo, lo precede dal 1986, quando mise a stecchetto Luigi Veronelli, decano degli enogastronomi: meno 10 chili. «Lui mi chiamava figlio e io papà». Da allora Mauro Defendente Febbrari («l’ultimo del casato con il secondo nome di questo martire della Legione tebea, ho interrotto una tradizione secolare») ha accorciato la panza dei più grandi chef stellati d’Italia. In ordine strettamente ponderale: Fulvio Pierangelini, già al Gambero rosso di San Vincenzo, oggi al Jardin de Russie di Roma, e la moglie Emanuela: 30 chili in due; i fratelli Chicco, Bobo e Rossella Cerea del Da Vittorio di Brusaporto: 22 in tre («di cui 14 la ragazza»); Raffaele Alajmo delle Calandre di Rubano: 17; Philippe Léveillé e Mauro Piscini del Miramonti l’Altro di Concesio: 7 a testa. Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze, ora ritiratasi a Cannes: 5 chili. Lo stesso peso che fece smaltire al compianto Gualtiero Marchesi dell’Albereta di Erbusco. Pur non bisognoso di dimagrire, si è rivolto a Febbrari anche Giancarlo Perbellini, 6 stelle Michelin conquistate con 10 locali sparsi fra Veneto, Lombardia e Sicilia: «Mi ha chiesto qualche consiglio nutrizionale per elaborare le sue ricette».
Dopo aver ridato la salute a tanti vip, per un crudele contrappasso sta male lui. Colpito da sclerosi multipla nel 2000, da 15 anni non cammina più, è in sedia a rotelle. Ma continua a visitare i suoi pazienti, anche se ha dovuto chiudere lo studio che aveva a Milano, in piazza Diaz.
Il paradosso è che Febbrari, medico da 44 anni, non è mai stato un dietologo. Le sue specialità sono l’endocrinologia e la diabetologia. Avrebbe voluto frequentare Scienze politiche e diventare interprete parlamentare, «ma rischiavo di finire professore di filosofia: la carriera diplomatica si presentava impervia».
Che cosa la spinse alla medicina?
«Dottori con le ali, titolo originale The flying doctors, serie tv australiana degli anni Ottanta. Pensai: giro il mondo con il van Volkswagen degli hippy e curo la gente in cambio di uova e pollame».
Il cibo già c’entrava.
«Un giovane che aveva un debito con mio padre, ed era assistente di endocrinologia alla Seconda Università di Napoli, mise una buona parola per farmi entrare. Il mio idolo era Che Guevara, divenuto medico dando 13-14 esami in un anno. Riuscii a batterlo: ne superai 17».
Incredibile.
«Per un tacito accordo, ogni tre esami mia madre mi dava i soldi per raggiungere Bruxelles, dove avevo conosciuto Floriana, figlia di un pilota di caccia, Mattucci, amico dei miei, che lavorava nella base Nato. È diventata mia moglie».
Quanti tipi di diete conosce?
«Solo quella del buonsenso. Rinunciare e crocifiggersi è inutile. Il mangiare è un piacere e tale deve restare. Il mondo è ancora pieno di dietologi che vorrebbero farti digiunare per tutta la vita. Nessuno può riuscirci. L’intestino ha bisogno di varietà. Mangiare sempre le stesse cose è la morte della sana alimentazione».
Francesco Perugini Billi, medico che lavorava come lei nel Policlinico di Ponte San Pietro, mi ha spiegato che per stare in salute bisogna mangiare grassi.
«Sono perfettamente d’accordo. Basti dire che il Seven countries study condotto dal professor Ancel Keys, fondamentale ricerca epidemiologica sui rischi cardiovascolari, non prende in considerazione il fumo di sigaretta. I francesi consumano burro, foie gras, patè eppure hanno meno accidenti cardiaci dei giapponesi che si nutrono solo di pesce».
Che fa? Mi condanna l’olio di oliva?
«No, dico solo che Philippe Léveillé, figlio d’arte di un ostricaio bretone, inventore di piatti storici come il caldo-freddo di cavolfiore e il crescendo di agnello, autore del libro La mia vita al burro, è arrivato a due stelle Michelin dimostrando che questo alimento è salutistico».
Giuseppe Giudice, che era il dietologo di Marta Marzotto, mi ha detto: «Mai considerate le calorie in vita mia».
«Io lo stesso. Il segreto è la masticazione lenta. Se non ingurgitassimo, mangeremmo un terzo in meno. Lo dissi al critico Paolo Marchi di Identità golose: non puoi scrivere di cibo buttandolo giù, a quella velocità non capisci neppure che cosa stai deglutendo. Si offese a morte».
Ma poi siete diventati amici.
«Gli ho fatto smaltire 15 chili».
Dalle foto mi sa che ora li ha ripresi.
«Lo credo, è un’idrovora. La moglie invece si controlla: con me ne ha persi 12».
Mi ha raccontato che lei cura i pazienti solo dopo averli condotti al ristorante.
«Verissimo. Lo portai da Vittorio, allora a Bergamo, per vedere in che modo mangiasse. L’ispirazione me la offrì l’architetto Roberto Panza, progettista di questa villa. “Stasera vengo a cena da lei”, mi disse. Chiesi: l’ha invitata mia moglie? “No, mi sono invitato da solo per capire da voi due e dai vostri figli che tipo di casa vi aspettate da me”».
Non si limita a far dimagrire gli chef.
«Esatto. Anche i loro fustigatori. Il povero Gianni Mura e la moglie Paola, critici del Venerdì di Repubblica, smaltirono 16 chili in due. Enzo Vizzari, direttore delle Guide de L’Espresso, 10 da solo. Metto in riga pure i vignaioli: Piermario Meletti Cavallari, quello del Grattamacco, Edoardo Valentini, Diego Molinari, la famiglia Taurino del Patriglione salentino. E Angelo Stoppani, l’allora patron di Peck che arruolò lo chef Carlo Cracco: gli tolsi 10 chili dal girovita».
Nessun esame di laboratorio?
«Il più importante è il disbiosi test. Accerta la presenza nelle urine di scatolo e indolo, che denotano un’alterazione della flora batterica intestinale. Il microbiota è il nostro secondo cervello, ma più intelligente del primo: regola difese immunitarie, tono dell’umore, metabolismo. Se non funziona, non puoi dimagrire. I probiotici possono ripararlo».
Come mai chi fa le diete poi torna a ingrassare e supera il peso precedente?
«Perché ignora il principio base della gastrosofia, filosofia applicata all’apparato digerente: se l’uomo mangiasse poco ma di tutto, sarebbe immortale».
Mi scusi, ma non è proprio lei che propugna la cucina monotematica?
«Preferisco chiamarla monoteista. Un solo alimento per volta. È la mia prima regola. Puoi papparti una fiorentina da un chilo, o tre sogliole, o due polli arrosto. Ma non metterci nulla sopra, sotto o di fianco, manco una scaglia di grana».
E la seconda regola?
«Svuotamento dei carboidrati per cinque giorni la settimana. Sono tassativamente vietate le “5 p”: pasta, pane, patate, pizza, polenta. In compenso, ammessi due bicchieri di vino rosso a pasto. Il sabato e la domenica, libera uscita».
Non c’è due senza tre. Terza regola?
«Ricerca della qualità esasperata. Con mio padre facevo 200 chilometri nella nebbia per andare a mangiare il risotto giusto nella trattoria Dante ad Asiago, che oggi non esiste più. Se ho una pausa pranzo di mezz’ora, non trangugio panini d’incerta natura. Meglio una spremuta di pompelmo, un caffè e mezzo toscano, fumato non mangiato, si capisce: con il suo Ph acido toglie l’appetito. Se faccio il bagno nelle piscine comunali, dopo cinque minuti comincio a grattarmi. Ma se mi tuffo in mare alle Tremiti, sto bene».
Quanto pesa?
«Ero 90 chili, oggi 74. Sono alto 1,81».
Che cos’ha mangiato ieri a pranzo?
«Scampi alla brace e orata di 3 chili, divisa in famiglia, con piccola maionese. La sera, friggitelli e due uova al tegame».
Vedo che ha l’intera collezione di piatti dei ristoranti del Buon Ricordo.
«Li ho raccolti quando il ricordo che ti lasciavano era ancora buono».
E in cantina che cosa troverei?
«Circa 3.000 bottiglie. Intere annate di Mouton Rothschild, Sassicaia e Solaia, gli introvabili Vega Sicilia spagnoli, il mitico Sine Qua Non prodotto da Manfred Krankl in California. Una settimana fa ho bevuto un Petrus del 1998, dono di un amico. Lo avrà pagato 3.000 euro».
La definirei un intenditore gaudente.
«Qualcuno mi chiama gourmet trainer. Nel 1978 andai a cena da Gualtiero Marchesi in via Bonvesin de la Riva a Milano. Mi presentò spaghetti freddi con sopra caviale ed erba cipollina. Spesi 180.000 lire. Il mio stipendio mensile era di 600.000. Litigai. Mi mise alla porta: “Lei non è pronto per la mia cucina, torni quando lo sarà”. Andai da lui all’Albereta 25 anni dopo. Stesso piatto: divino. Ero cambiato io. Diventai il suo medico».
Perché i ristoratori ingrassano?
«Assaggi, stress, cattive abitudini. Raffaele Alajmo mi ha confessato che, dopo aver chiuso il locale all’una di notte, spazzolava l’intero carrello dei formaggi avanzati. Oggi è tornato sui 110 chili».
Il fratello Massimiliano è filiforme.
«Max è un prussiano. Insieme, in sette anni abbiamo laureato nel Master della cucina italiana più di 100 chef, molti dei quali oggi stellati. Dopo la mezzanotte, quattro volte a settimana mi telefona per raccontarmi com’è andata la serata nel suo tempio. Non tutti sono come lui o il defunto Sirio Maccioni di Le Cirque di New York, che a una cena in suo onore si limitò a due cucchiaini di caviale. Me l’ha raccontato Fulvio Pierangelini».
L’eterno rivale di Gianfranco Vissani.
«Mai pranzato da Vissani. L’ho incrociato solo a Identità golose. Mi ha disgustato. È un saccente criticone. Decaduto D’Alema, mi pare finito anche lui».
Ridolfo nella «Bottega del caffè» di Goldoni: «La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre quanto più l’uomo invecchia».
«L’uomo saggio sa che invecchiando va verso la sua fine. Ma, proprio perché è saggio, non ha di questi parossismi. Mio figlio Riccardo mi ha portato dalla Martinica nove diversi rhum agricole. In due sere, li ho degustati tutti, un dito ciascuno. Un dito in orizzontale, eh!».