Corriere della Sera, 16 settembre 2022
Da Cesare Ragazzi a Mastrota, i pionieri delle televendite
Sepolto dalla fine del secolo scorso nel garage di qualche centinaio di italiani, o magari nascosto nel cruscotto di qualche vecchia automobile miracolosamente sopravvissuta alla rottamazione, giace l’unico modello di anti-autovelox mai venduto «legalmente» sul mercato italiano. Distribuito dalla società Valking Market con sede a Padova, ma ordinabile al telefono dopo aver composto un prefisso della provincia di Pesaro, l’anti-autovelox veniva presentato al pubblico col nome industriale, «LVX 500»; e costava praticamente meno di due multe per eccesso di velocità, 699 mila lire più Iva, prezzo al pubblico 838 mila e 800 lire, arrotondate per difetto a 838 mila. Distribuito in Veneto, ordinabile al telefono nelle Marche, «LVX 500» veniva pubblicizzato – tra le altre – anche dall’abruzzese Rete 8.
Nel 1999, quindi, i nottambuli della provincia di Pescara o di Chieti, di Teramo o dell’Aquila, potevano facilmente imbattersi nella televendita che reclamizzava il miracoloso marchingegno di fabbricazione americana; che, se posizionato sul cruscotto dell’automobile, avrebbe segnalato con un «bip» l’imminente materializzarsi di uno di quegli autovelox moltiplicati a dismisura per volere dell’allora capo della Polizia Ferdinando Masone, impegnato nella drastica riduzione del numero di morti e feriti per incidenti stradali.
Forte del suo raggio d’azione di ottocento metri dichiarati, «LVX 500» avrebbe avvertito l’incauto guidatore della necessità impellente di frenare per evitare la multa. Pochi o tanti che fossero, tutti i potenziali acquirenti traditi da una botta di senso civico, o sorpresi da un’insopprimibile crisi di coscienza, venivano immediatamente tranquillizzati dalla televendita. Era tutto non in regola, di più: «LVX 500» vantava nientemeno che «un’autorizzazione della Corte di Cassazione». E chissà quanto sarebbe andata avanti la storia dell’anti-autovelox «legale» se l’allora deputato dei Verdi Athos De Luca, in overdose da zapping da notte insonne, non si fosse imbattuto nella televendita e non avesse telefonato al numero in sovraimpressione per chiedere lumi, sentendosi rispondere da una centralinista col sillogismo «una sentenza della Corte di Cassazione ha autorizzato la pubblicità sulle tv private, la vendita dell’anti-autovelox avviene solo tramite pubblicità sulle tv private, la Corte di Cassazione ha autorizzato l’anti-autovelox».
La distribuzione sul mercato dell’anti-autovelox finì lì, nel 1999. Proprio mentre il boom di televendite e telepromozioni, iniziato una decina di anni prima, raggiungeva in Italia il punto massimo della sua parabola ascendente. Perché c’è stata un’epoca in cui un formulario magico composto da locuzioni mai usate in precedenza – «telefonata senza impegno», «pacco anonimo», «prime dieci telefonate», «soddisfatti o rimborsati», «numero in sovraimpressione», «riceverete la visita di un nostro addetto», «comode rate» – ha accompagnato gli italiani verso la soddisfazione di bisogni che prima non c’erano, alla ricerca di oggetti che non si pensava potessero esistere, dentro il sogno di aggirare ostacoli della vita piccoli e grandissimi come l’autovelox sulla strada e la calvizie sulla testa.
Un’epoca nata con la tv commerciale ed entrata in crisi con l’avvento di internet, che ha portato nelle case degli italiani «la serie perfetta di coltelli Miracle Blade» (l’americano Chef Tony), «l’autentico originale tappeto Keishon, manifattura nata nel 1740 per ordine di un sultano» (l’inarrivabile Alessandro Orlando, già Telemarket), le decine di versioni del vibromassaggiatore a due e tre velocità con quattro fasce «brevetto Revital», del quale il volto televisivo dell’azienda Amerika Star, Fabrizia Fabbri, garantiva sul suo onore gli stessi benefici dell’andare in palestra, anche se comprandolo potevi startene tranquillamente a casa: «È un istituto di bellezza in forma mignon, come una piccola palestra. Perché qui avete la ginnastica attiva e la ginnastica passiva ma per tutto il corpo! Perché grazie a queste fasce voi avrete il meglio del drenaggio e del dimagrimento! Che cosa vuol dire drenaggio? Facciamolo vedere ora, Marzia (l’inquadratura passava sulla modella Marzia, alle prese con una seduta di vibromassaggiatore dedicata ai glutei, ndr)... Drenaggio vuol dire sanare un corpo dai liquidi in eccesso, drenaggio vuol dire sanare la circolazione, una situazione diciamo “non normale” che vi crea cellulite, vi crea anestetismi. Parliamo quindi non solo di situazioni estetiche ma parliamo sicuramente anche di ne-ga-ti-vi-tà fisicaaaaa!».
E dire che senza Amerika Star, Monika Sport e tutte le altre aziende della galassia del fitness uscite dal cilindro del patron Alcide Golinelli, modenese di San Felice sul Panaro, nulla di quello che è successo dopo con televendite (l’acquisto avveniva direttamente con la telefonata) e telepromozioni (un addetto avrebbe perfezionato la vendita a casa dell’acquirente) sarebbe successo nei tempi e nei modi in cui è successo, compresa l’incoronazione di Mike Bongiorno a divinità nazionale incontrastata e inarrivabile del genere.
Nel 1974 Golinelli, scomparso nel 2011 a 67 anni, aveva incontrato per caso in aeroporto a Bologna il presentatore Raffaele Pisu, appena rientrato da un viaggio negli Stati Uniti. Del soggiorno in America, a Pisu era rimasto impresso un fatto che aveva dell’incredibile e l’aveva raccontato all’amico: guardando la televisione, si era imbattuto nella televendita di una cravatta, gli era piaciuta, aveva composto il numero di telefono visto sullo schermo, l’aveva ordinata e soprattutto gli era stata consegnata a domicilio in un’ora. È la scintilla. Da lì in poi, sfruttando Pisu come testimonial e il sistema delle videocassette distribuite nei circuiti delle tv locali di tutta Italia, Golinelli, che prima vendeva materassi, si sarebbe lanciato nel commercio di bici da camera prima e di vibromassaggiatori dopo. Delle prime vendette ottantamila pezzi; dei secondi, lanciati dal racconto di Fabrizia Fabbri e dalle dimostrazioni televisive di modelle come Marzia, quattro milioni.
«La formula “salve, sono Cesare Ragazzi”, con cui iniziava la pubblicità, è mia. Semplice e indimenticabile. Com’era stata mia anche l’idea di tuffarmi a mare per lo spot e mostrare i capelli sott’acqua. Lo slogan no, l’aveva fatto un’agenzia di Milano. A ripensarci oggi, a quaranta e passa anni di distanza, mi sembra geniale», racconta Cesare Ragazzi citando a memoria quella frase – «Tutto può succedere a un calvo che si è messo in testa un’idea meravigliosa» – che ha cambiato la storia delle telepromozioni e smentito l’assunto secondo cui la brevità dello slogan è la chiave del successo di uno spot.
Cultore dell’innesto di capelli e nemico giurato della tecnica del trapianto, Ragazzi deve tutto «al fatto che lavoravo già a nove anni, vendendo le caramelle al cinema durante l’intervallo. Visto che in quel periodo davano soprattutto western, e che rimanevo in sala a vedere i film, davanti ai miei occhi passavano le scene degli indiani che si prendevano lo scalpo del cowboy. Dieci anni dopo, quando ho iniziato ad avere problemi di calvizie, ho ripensato a quei film: ma se lo facevano gli indiani togliendo i capelli a un morto, perché la stessa cosa non posso farla io per mettere i capelli a uno vivo?».
La telepromozione, con tanto di numero di telefono per contattare i suoi centri e fissare un appuntamento, è la chiave del successo. «E lo sa perché? – dice lui —. Perché solo davanti alla tv un uomo avrebbe ammesso di avere un problema tricologico e preso il coraggio di telefonare. Ai tempi d’oro, un passaggio nazionale della telepromozione sulle reti Fininvest poteva valere anche centotrenta telefonate. Dei centotrenta, all’appuntamento preso, venivano quasi tutti. Poi un dieci/quindici per cento si convinceva a procedere dopo il colloquio. Nessuno, e dico nessuno, avrebbe mai ammesso di essere venuto da me. Ho visto persone che avrebbero confessato rapine a mano armata, omicidi, le peggiori nefandezze; ma non questo. Eppure, guardi la stranezza, che io sappia nessuno si è mai pentito di avermi incontrato sul suo cammino», spiega adesso che lavora in proprio, con tecniche di innesto a suo dire sempre più performanti e innovative, anche se l’azienda col suo nome l’ha venduta anni fa a un fondo d’investimento. «A Mediaset, quando capitavo da quelle parti, molti presentatori si dileguavano. Evitavano di incrociarmi perché io, se guardo una testa, so già tutto quello che c’è da sapere».
«Io sono sempre stato soprattutto l’uomo di pentole e materassi», dice Giorgio Mastrota, il televenditore più longevo della tv italiana. Conduceva programmi tv di cui la televendita era una specie di intermezzo; di intermezzo in intermezzo, da un certo punto in poi è rimasto a fare solo televendite. «Eppure ho campato bene e sono ancora felice così. Lei conosce un bambino che compra pentole o materassi? Io no. Eppure, mi creda, il mese scorso ho fatto una riunione a Milano con dei quarantenni molto fichi e molto smart, gente che si occupa di comunicazione e pubblicità, che erano adolescenti negli anni ’90. Mi hanno detto “Mastrota tu sei il nostro mito perché siamo cresciuti con te, guardando le tue televendite tra un telefilm e l’altro”».
Un pezzo d’Italia cresciuto così, tra mountain bike con cambio Shimano, televisori 14 pollici e ferri da stiro con caldaia separata, che poi erano gli omaggi compresi nel prezzo per gli acquirenti più rapidi nell’aggiudicarsi una batteria di pentole o un materasso. «Per non dire dei bisogni, di come sono cambiati, di una sorte di evoluzione della specie determinata dalle televendite. Le prime poltrone che promuovevo erano fatte per sedersi e basta; poi sono arrivate quelle che ti tiravano su le gambe; poi quelle col poggiaschiena reclinabile; quindi quelle che fanno anche un massaggio. La stessa cosa vale per i letti o per i cuscini. Anche le leggi sono arrivate dopo le televendite. La formula “soddisfatti o rimborsati”, credo un’invenzione di Mike Bongiorno, tranquillizzava il telespettatore perché gli garantiva la possibilità di cambiare idea sull’acquisto. La legge sul diritto di recesso è arrivata dopo...». Un giorno Mastrota, guardando una televendita, ha telefonato al numero in sovraimpressione: «Era un set di coltelli del mitico Chef Tony. Mi piacevano, il prezzo era buono, ho alzato il telefono per fare l’ordine. Arrivato al momento di fornire i dati per la fatturazione, quando ho detto “cognome Mastrota nome Giorgio” il centralinista ha messo giù pensando fosse uno scherzo».
Che è la stessa cosa successa decine di volte anche a Silvio Berlusconi, forse il teleacquirente compulsivo più celebre sul suolo nazionale. «Adesso avrei bisogno dei suoi dati, iniziamo da nome e cognome. Lei è il signor...?». «Silvio Berlusconi». A questo punto della storia, l’operatore del servizio clienti trattiene il fiato, c’è l’immancabile pausa telefonica che copre gli istanti in cui deglutisce la saliva. Poi riparte. «L’indirizzo di fatturazione è lo stesso dell’indirizzo di consegna?». E l’altro, di rimando: «Certo. Presso villa San Martino, viale San Martino, Arcore, provincia di Monza e Brianza».
Solo i più assidui frequentatori della villa di Arcore sono in grado di riconoscere la scenetta e di recitarla alla perfezione. C’è stato un tempo in cui chiunque andasse a trovarlo a casa sua poteva sorprendere Berlusconi intento a guardare le televendite dei quadri. Che non sono delle televendite in senso stretto ma delle vere e proprie aste, trasmesse da quelle emittenti locali in cui ci si imbatte solo avventurandosi col telecomando nelle numerazioni del digitale terrestre più lontane dal perimetro dei primi nove numeri. Per l’ex premier erano e sono ancora uno show imperdibile. In grado di inchiodarlo al divano come pochi altri programmi tv. Tra l’altro, come testimoniano le numerose chiamate al servizio clienti, Berlusconi non si limita a guardare da telespettatore passivo. Al contrario, se viene rapito da un quadro, alza il telefono, fa un’offerta e prova ad aggiudicarselo. Tutto da solo, senza l’intercessione della segreteria, hai visto mai che quei pochi secondi in cui si cerca un collaboratore qualcun’altro ha già superato l’offerta.
Trasferiti a Villa Gernetto per motivi di spazio, oggi ci sono centinaia di quadri che nel corso degli ultimi anni il padrone di casa si è aggiudicato partecipando in tempo reale a un’asta in tv. D’altronde, come gli ha ripetuto tante volte il suo amico Vittorio Sgarbi, «il vero collezionista non è quello che spende un sacco di soldi per un quadro, altrimenti l’arte sarebbe una cosa solo da miliardari. Il vero collezionista è quello che sa riconoscere un’opera di valore e la paga il meno possibile».
Una parte consistente del tempo che l’inventore della tv commerciale italiana riesce a passare davanti alla tv è dedicata alle televendite. E non di rado gli ospiti della casa – siano essi collaboratori, politici di Forza Italia, uomini Mediaset – vengono trascinati da Berlusconi nella visione del particolarissimo show, spesso elevati al rango di consulenti improvvisati. «Non trovi che questo quadro sia bellissimo? Guarda che cornice definita. Che faccio, chiamo?».