La Stampa, 16 settembre 2022
Un milione di dimissioni
In sei mesi un milione e 80 mila italiani hanno firmato la lettera di dimissioni dal loro posto di lavoro. Il confronto con l’anno scorso dice +31,73% ma è poco indicativo, perché nel 2021 si usciva dalla grande crisi pandemica – quella dell’energia era alle porte – e il mercato era congelato dal blocco dei licenziamenti, che a specchio frenava le assunzioni e dunque le possibilità di cambiamenti. Eppure l’ordine di grandezza è senza precedenti per il nostro Paese. Il great resignment all’italiana è in buona parte diverso da quel fenomeno che nel mondo in uscita da lockdown e restrizioni sanitarie aveva portato 25 milioni di persone a cambiare strada in cerca di ritmi che non ruotassero più intorno all’ufficio. Una scelta che sta in quattro lettere: “yolo”, you only live once, si vive una volta sola e gli spazi di vita recuperati in lockdown all’improvviso erano diventati più importanti di carriera e stipendio (specie quando la paga è quella che è). In Italia, dice l’Osservatorio sul precariato dell’Inps, al milione di dimissioni in sei mesi si affiancano un aumento delle assunzioni del 26% e un saldo positivo di 946 mila posti, due terzi dei quali nel solo mese di giugno: una lettura dei dati semplice ma non fuorviante dice che non c’è stata fuga dal lavoro ma, sorpresa, nel nostro Paese il mercato occupazionale si sta rivelando dinamico.
«Non dobbiamo immaginare centinaia di migliaia di persone che hanno scelto di aprirsi un chiringuito o ritirarsi in montagna come si raccontava qualche tempo fa, i numeri indicano che la nettissima maggioranza di queste persone non è uscita dal mercato del lavoro ma si è ricollocata – spiega Andrea Garnero, economista dell’Ocse –. In uscita dalla pandemia abbiamo avuto una crescita economica senza precedenti, molte opportunità si sono aperte soprattutto nei settori che più avevano sofferto nei due anni precedenti e così le persone hanno potuto cambiare strada cercando soluzioni migliori. Insomma, questo record di dimissioni è sostanzialmente un fatto positivo. Ci dice che la macchina ha accelerato e si è attivata una grande centrifuga, sicuramente più impetuosa perché si arrivava da due anni di crisi e blocchi».
Ciò naturalmente non significa che il mercato italiano del lavoro sia improvvisamente attraversato dal dinamismo di altri Paesi: «Non è un new normal, certo: il traino arriva da una ripresa economica senza precedenti», aggiunge Garnero. Riportando tutti gli indicatori su livelli inediti: +26% per assunzioni e cessazioni, +74% di trasformazioni dei contratti, licenziamenti economici raddoppiati rispetto al periodo del congelamento forzato.
La spinta anche da dinamiche contingenti, come rileva Francesco Seghezzi: «Il superbonus ha creato una domanda di lavoro eccezionale nell’edilizia, che non a caso è uno dei settori dove si vedono più dimissioni e assunzioni – spiega il presidente di Fondazione Adapt –. Le aziende hanno fame di personale, quindi danno occasioni di migliorare la propria posizione che i lavoratori le colgono. Il tema più in generale sarà capire quanto sarà dura la frenata dell’economia nei prossimi mesi, già i primi numeri di luglio lasciano intendere che l’inversione di tendenza sia in atto». È lo spettro della recessione, già concreto con le fermate delle fabbriche strozzate dalle bollette e rilanciato ieri da Fitch e, nel mondo produttivo, da Federmeccanica: «Vediamo arrivare uno tsunami che ha già iniziato a toccare le nostre imprese, il 7% delle quali è a rischio stop» ha detto il vicepresidente Diego Andreis.
Dopo il semestre del boom e della mobilità, è già l’ora di ripensare a strumenti straordinari di protezione dei lavoratori? «Penso sarà inevitabile – risponde Garnero –. Come per la pandemia, siamo davanti ad una nuova crisi esogena, che non dipende dalla competitività delle imprese: sarà necessario aiutare chi va in difficoltà per colpa delle bollette, replicando i modelli sperimentati per la pandemia sia sul credito che sugli ammortizzatori sociali. Magari ricordando sempre che il tempo della cassa integrazione dovrebbe essere usato per fare formazione, non per limitarsi ad aspettare che passi la tempesta».