la Repubblica, 14 settembre 2022
Su "Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza" di Serenella Iovino (il Saggiatore)
Un posto bisogna averlo, diceva Pavese: ma per farne che cosa? Se non sappiamo più leggere il paesaggio, non possiamo pensare di difenderlo. E noi oggi non comprendiamo ciò che vediamo, quel che ci circonda e ci determina, ciò di cui viviamo e lentamente moriamo, quando l’ambiente materiale e sociale che abbiamo deformato incomincia a deformare anche noi, con le cellule del corpo individuale minacciate e adulterate come il grande corpo delle città e delle campagne, mentre il paesaggio - che è sempre deposito di memoria - si riduce a scenario, smarrendo il suo significato e la sua storia.
È una denuncia tutta politica, che fuoriesce dalla riserva ecologista, quella di Serenella Iovino, docente di Environmental Humanities all’università del North Carolina, nel saggio pubblicato dal Saggiatore col titolo Paesaggio civile. Perché perdendo contatto con la vera natura del paesaggio che abitiamo, noi abbiamo smesso di pensare a quel luogo e alla sua sostanza che interpella ogni nostra azione, e abbiamo per questo rinunciato a capire, a denunciare, a rivendicare: cioè a correggere, a cambiare, soprattutto a pretendere, consumando l’ecologia come una moderna ideologia, ma separandola dalla politica. Ci restano così in mano, inservibili, i profili iconografici del paesaggio, come se fossimo turisti di passaggio, viaggiatori da selfie. Ma separandoci dal luogo, perdendo la coscienza del "posto", stiamo diventando insensibili alla testimonianza della storia custodita nella terra, nelle maree, nei fiumi, nella nebbia e nei vulcani: e che, come la storia degli esseri umani, parla di costruzioni, di devastazioni, di resistenza e di difesa, cioè di fatica e di consapevolezza, dentro la cultura materiale che è il vero contesto della nostra vita associata.
Rifiutando questa metamorfosi, Iovino prova a leggere i territori e i corpi che li abitano come se fossero testi, con la loro trama di sostanze, esperienze e processi, azioni e immaginazioni: ma anche relazioni sociali e rapporti di potere, equilibri, squilibri, abusi, recuperando il significato originale dell’ecologia come un discorso (logos) della casa (oikos) e quindi il territorio come un terreno di storie. Se gli esseri umani sono animali narrativi, il loro primo racconto è stato il paesaggio, che coincideva semplicemente con la vita. Il luogo, con il tracciato di un fiume, la sicurezza di un rifugio, la ricchezza di una sorgente, li ha orientati a muoversi, a fermarsi e a scegliere. Nei secoli il paesaggio è stato il mediatore tra il mondo e gli umani, alla ricerca del loro spazio. E ogni atto dell’abitare è stato ed è anche un’interpretazione del luogo, e un momento di consapevolezza del vincolo che esiste tra quel paesaggio domestico, noi e il mondo. Ma questa interpretazione non è più univoca: interessi organizzati, poteri grandi e piccoli producono spesso una lettura fallace del paesaggio, un’immagine falsificata, deviando la coscienza e quindi i propositi e l’azione dei cittadini-abitanti.
Il racconto si muove attraverso quattro quadri che provano a restituire la verità al paesaggio, superando la grande dimenticanza. Prima Napoli, Pompei, il Vesuvio, con le tracce dello sbigottimento visibili per sempre nei calchi degli umani sepolti dall’eruzione del 79 dopo Cristo, perché pensavano di abitare sotto una montagna e non sotto un vulcano. Mentre oggi, denuncia Iovino, "si finge di non sapere che si tratta di un vulcano attivo e si costruisce illegalmente facendo di questa zona ad altissimo rischio uno dei luoghi più pericolosi al mondo". Attorno, la devastazione delle ecomafie che trasformano territori e corpi in discariche abusive, producendo biografie tossiche e quel che Marco Armiero chiama "Wasteocene", cioè l’antropocene dei rifiuti: in un evidente scambio tra politica e immondizia, attraverso quella "porosità" di Napoli fatta di tufo e vulcano prima del cemento, dove Lucrezio vedeva "l’umore dell’acqua infiltrarsi tra rocce e anfratti" e dove oggi bisogna cercare la violenza lenta, al rallentatore, prodotta dall’uso spietato degli scarti e della monnezza, e coperta e nascosta dalle ecologie opache del potere, dell’illegalità e delle connivenze politiche.
Poi c’è Venezia, con la sua laguna che Andrea Zanzotto racconta "febbrile e calma, contemporaneamente rassicurazione e inganno". Dall’ecosistema della laguna dipende la sopravvivenza della città che contiene tutte le idee di città, come diceva il Marco Polo di Calvino, anche se l’impianto qui del polo petrolchimico ha completamente frainteso la natura reale del luogo, privando gli abitanti di Marghera della più elementare "giustizia cognitiva", il diritto di sapere cosa si stava preparando, e quindi di poter scegliere il loro destino, conoscendo la terribile verità biologica rivelata dalle cellule dei loro corpi.
Quindi i tre terremoti dell’Irpinia, del Belice e dell’Aquila, apocalittici perché segnano la scomparsa di un mondo e del suo racconto, nella frattura materiale, morale e sociale che distrugge il profilo del luogo e ferma la sua proiezione nel tempo, perché lacera il nostro legame con chi ci ha preceduti e chi ci seguirà. Nella catastrofe solo questa ferita conta, annulla ogni altra ricerca di senso, rompe il divenire di una comunità annientata nell’identità del suo paesaggio comune, riconosciuto e condiviso.
Infine, la possibilità di una rinascita, studiata sul modello delle Langhe passate in pochi decenni da terre della "malora" come le aveva raccontate Fenoglio, alla ricchezza e alla bellezza riconosciute dall’Unesco nel 2014. Ma quali sono le storie umane, le fatiche, i costi di questa emancipazione dei luoghi e di chi ci vive? Bisogna passare dalla solitudine nell’abbandono dei "vinti" raccontati da Nuto Revelli, che ha girato le colline, la piana e le montagne vicine alla Francia per raccogliere la verità tenuta segreta nel riserbo dell’isolamento, ma vissuta fino in fondo nella miseria, nella violenza patriarcale, nello sradicamento della guerra, nel silenzio del lavoro quotidiano delle mogli, anello forte di questa società alpina sgranata e abbandonata: finché Nuto le ha restituito la parola, rivelando quel racconto con la sua scrittura nitida e precisa, come se raccogliesse un testamento. E in fondo lo era: sulle montagne cuneesi un mondo moriva separato da un Paese immemore, ma raccontandosi prendeva coscienza di sé e si riappropriava delle sue ragioni di minoranza, della sua geografia di resistenza. E il disegno ignoto e appartato di quella terra cominciava così a diventare un paesaggio civile.