il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2022
Intervista a Howard Jones
Howard Jones, dov’era il 13 luglio 1985?
A Wembley. Il Live Aid. Quando il pubblico intonò con me il ritornello di Hide and Seek sentii la pelle strapparmisi di dosso.
Era un campione della nuova scena elettropop inglese.
Geldof mi aveva invitato perché rientravo nelle regole d’ingaggio: aver venduto almeno un milione di copie nei sei mesi precedenti. La mia agenda incasinata mi aveva già fatto perdere la chance di Do they know it’s Christmas, il singolo natalizio all-stars di Band Aid. Avrei potuto cantare anch’io un verso!
Al Live Aid si rifece.
Sceso dal palco, indugiai nella zona bar del backstage. C’era questo tizio di spalle, appoggiato al bancone. Si gira e mi fa: ‘Stai andando forte in America’. Era David Bowie.
Un’investitura.
Mancò poco che svenni. Più tardi, fuori dei camerini, provai con le mie coriste Life in a day a cappella. Attratti da quel casino, vennero ad ascoltarci due spettatori vip. Di nuovo Bowie e Pete Townshend degli Who. Mi sentivo sull’Olimpo. Chiacchierai a lungo pure con Paul McCartney e Linda. Lei ci fece una foto che ho ancora appesa nello studio.
Nel Royal Box c’erano Carlo e Diana.
Li avevo conosciuti ai benefit del Prince’s Trust. Noi artisti tutti in fila in attesa di una stretta di mano. Domandai a Carlo: “Io sono vegetariano. Lo è davvero anche lei?”.
Risposta?
“Tutti noi dovremmo mangiare meno carne”. Ho fiducia in questo re ambientalista, ascolterà i giovani.
Lei aveva aperto un ristorante vegetariano a New York.
Dietro Washington Square. Ci persi un sacco di soldi, ma era per una buona causa. Venivano Madonna, Michael J.Fox, le band inglesi. E Lou Reed, ghiotto di un piatto a base di patate dolci fritte.
Howard, ha posticipato a ottobre il tour in Gran Bretagna con il trio acustico. Questi sono i giorni del lutto per la regina.
Venerdì ho suonato a Ipswich in un festival, c’erano Adam Ant e Nik Kershaw. Avevo già riflettuto sull’eventualità di farmi da parte, ma era troppo tardi. Ho dedicato a Elisabetta la performance e Celebrate it together, il primo brano del mio nuovo album Dialogue.
Aveva incontrato la sovrana?
Da ragazzo ho vissuto in Canada. Elisabetta arrivò in visita. Di notte, con i miei, corremmo all’aeroporto. La sua auto ci passò accanto. Da quel momento ho sentito una connessione con lei. Era una figura storica straordinaria, con la sua resilienza e certi silenzi eloquenti, per servire il popolo. Omaggiamo la sua vita.
L’ultima volta che la vide?
Ero fuori da Buckingham Palace per le celebrazioni del Giubileo. Si sapeva che non stava bene, ero sicuro non sarebbe apparsa. Invece eccola sul balcone, sorridente nel suo stupefacente outfit verde.
È stata un’inarrivabile icona pop. C’era anche al tempo della travolgente ondata del synth-pop negli anni 80. Depeche Mode, Human League, gli Ultravox del suo amico Midge Ure, Soft Cell, Yazoo e lei, Howard.
Ma non penso a me stesso come un reperto da museo. All’epoca la stampa mi massacrava. Scrivevano: “gli Stones si portano dietro tonnellate di apparecchiature, poi arriva Jones, preme un tasto e il sintetizzatore va da solo”.
Non era così.
Programmare, farsi largo tra le sequenze, trovare la melodia. Quegli strumenti non suonano da soli. Io sono ancora qui, non ero un bluff. Giorni fa ho incontrato Mark Ronson, il megaproduttore di Amy Winehouse e Bruno Mars. Vedremo. Ho scritto molto in pandemia. Dialogue è parte di una quadrilogia. Se noi umani non riscopriamo la bellezza di essere immersi nell’universo e di comunicare, non ci sarà macchina che potrà salvarci. Neppure il telescopio James Webb.
Nel 2001 partecipò alla tournée della superband di Ringo Starr.
Avrei potuto rinunciare? Ringo era amichevole, motivazionale. Mi ripeteva: “Farò di tutto per restare in salute il più a lungo possibile, voglio veder crescere i nipoti”. Nel gruppo c’erano anche Sheila E., la batterista di Prince, e Greg Lake, bassista di Emerson, Lake & Palmer.
Uno dei suoi eroi.
Nel ’70 vidi per la prima volta gli ELP, avevo 14 anni. Era sconvolgente il modo in cui un tastierista supremo come Emerson faceva il frontman e tirava fuori suoni inimmaginabili da un colossale Moog. Per il tour di Ringo studiai due mesi la partitura di prog estremo di Karn Evil 9: alla fine sono riuscito a suonarla con Lake.
E la collaborazione con Umberto Tozzi?
Una versione inglese de Gli altri siamo noi, destinata a Sanremo 1991. Avrei colto qualsiasi opportunità per venire in Italia. Però Umberto è un grande, sia chiaro!