il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2022
Ritratto al vetriolo di Carlo III
Ma non sarà che a forza di seppellire la regina, non sia la Gran Bretagna a seppellire se stessa? Quanto durerà la bandiera Union Jack, ora che accanto a lei hanno smesso di sventolare sui pennoni di Westminster, i cappellini fucsia di Sua Maestà la Regina, i suoi tailleur psichedelici, color giallo limone e verde lattughino, con borsetta e scarpe incorporate? Erano loro a garrire in cima ai 98 metri della Victoria Tower, dove a fatica si sta issando il povero figlio, re Carlo, detto Carletto, cresciuto in così tanta pace da occuparsi di nulla, fino a pretendere tutto, compresi il valletto che ogni sera gli schiaccia il dentifricio sullo spazzolino, il water portatile quando viaggia per l’orrore di sedersi altrove, il maggiordomo che gli stira le stringhe delle scarpe.
Tutte le cerimonie mostrano nella forma più pomposa il vuoto che si portano dentro. Esistono per questo. Sono riti contro la paura. Sinfonia ad alto volume a coprire il silenzio, folle che si riuniscono contro la solitudine. Tanto tempo fa intorno al fuoco ancestrale del villaggio, oggi sotto le arcate gelide delle Cattedrali, dentro i dischi volanti degli stadi, nel pub, o ai nobili picnic con vista sull’ippodromo di Ascot.
Tocca a lui, l’erede, il nuovo re Carlo III, rivestito come un soldatino nello Schiaccianoci, a impersonare il futuro tremante della nazione appena fuoriuscita dall’Europa e dai gargarismi alcolici di Boris Johnson, che fu un impero di civilissimo sopruso durato quattro secoli, il più grande di tutti i tempi, costato infiniti massacri multietnici. Impero declinante da gran tempo, anche lui insepolto dentro al disordine delle sue periferie di case in cartongesso, e delle bande di miliardari russi, arabi, indiani, che si sono comprati il cuore di marmo della capitale per farci correre le loro limousine fiammanti con incluso il free delivery delle escort in ghiaccio.
È Carlo, 73 anni, ma vecchio già da mezzo secolo, il re nudo della fiaba, la faccia sempre spaesata incastrata tra le grandi orecchie che come sentinelle lo tengono in ostaggio da quando apparve al mondo mentre giocava a polo, lui a cavallo a inseguire la pallina sull’erba, come i cagnolini Corgi di mamma, castellana a Balmoral: emblema di ogni vita lietamente vuota. Sono proprio le orecchie – coniugate all’eloquio di smagliante accento, ma senza sangue, senza lacrime, senza proteine – a impedirgli ogni carisma. In qualunque circostanza. Dai tempi in cui la principessa Diana in fuga dalla noia mortale di casa Windsor se la spassava in giro e poi si masticava il marito con una sola languida occhiata a favore di telecamera, mentre teneva in braccio i pupi regali sottratti al gelo delle istitutrici. Fino a questi giorni dominati dalla liturgia del funerale più lungo e più raccontato del mondo. Momenti che si vorrebbero supremi, scanditi in diretta planetaria, con lui per la prima volta al centro della scena. Ma inutilmente, visto che è sempre la sua Lovely Mother a sovrastarlo, a spostarlo di lato, a ricordare a tutti di essere lei il tesoro d’Inghilterra che se ne va per sempre, lui solo la sua ombra, titolare al massimo dei 133 addetti al suo benessere e al suo porridge, tra cuochi, giardinieri, autisti e governanti.
Nessuno l’ha mai preso davvero sul serio, sebbene Carlo ci abbia sempre tenuto ad avere una opinione su tutto – nella politica, nell’economia, in difesa dell’ambiente – e persino a renderla pubblica, tramite messaggi ai governi, ai ministri e ai tabloid che sono la vera aula di decantazione non dei Comuni, ma degli uomini comuni, dove sgocciola un po’ di grasso dalle élite in forma di chiacchiere parapolitiche, scandali qualche volta economici, di solito alcolici e sessuali.
La grandezza della Regina era nel suo silenzio raramente interrotto. Mentre le chiacchiere di Re Carlo accresceranno la sua miniatura. Ci sono le premesse visto che al netto delle migliaia di frasi alacremente pronunciate, una sola ne resta: “Vorrei essere il tuo tampax”, detta all’amante Camilla in una telefonata intercettata, anno 1993, in piena guerra delle Due Bionde, l’intero mondo a lacrimare con Diana, l’intero mondo a ridere di Carlo.
La sopravvalutata Margaret Thatcher, in cuoio ultraliberal, si divertì a smontare il Welfare dei più poveri, sostenendo che “la società non esiste, esistono gli individui”. Poteva farlo perché alle spalle dei suoi riccioli si stagliava la messa in piega di Elisabetta che l’intera società l’aveva incorporata, unificandola in una ipnosi collettiva, moltiplicata tutti i giorni dell’anno dall’effigie riprodotta in ogni amata sterlina.
Vedremo se domani re Carlo avrà una esistenza autonoma, ora che sta finendo l’ossigeno che lo ha tenuto in vita, invecchiandolo. Ma specialmente se l’avrà il regno. Non tanto per la rete slabbrata del Commonwealth, né per isole remote che se ne sono già andate, come Barbados o la Giamaica, ma per i pezzi pregiati, la Scozia, il Galles, l’Irlanda del Nord. La tela stessa con cui è fabbricata la sua integrità territoriale. E incidentalmente le lenzuola sotto le quali anche re Carlo fa la nanna.