Corriere della Sera, 14 settembre 2022
La marcia su Roma e il bluff di Mussolini
Nelle sue memorie – I giorni di un liberale. Diari 1907-1923 (il Mulino) – il direttore del «Corriere della Sera» Luigi Albertini definì la marcia su Roma «un’indegna commedia». Un altro grande giornalista, Mario Missiroli, in Il fascismo e il colpo di Stato dell’ottobre 1922 (Cappelli) ironizzò sul fatto che la conquista del potere da parte di Mussolini fu «fin troppo facile» e il tutto si risolse senza «nemmeno la simulazione di una resistenza». La «marcia» del 28 ottobre 1922 ebbe un carattere bizzarro e a tratti ridicolo, come ricostruisce Marco Mondini nell’interessante e assai ben documentato Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita che esce il 16 settembre per il Mulino.
Trascorsi cento anni, è chiaro che nelle intenzioni di Mussolini la «marcia», scrive Mondini, doveva essere nient’altro che «una clamorosa, roboante messa in scena». Un «insieme di spregiudicata violenza e di intimidazione, una spedizione punitiva su scala nazionale, pensata per spaventare molto più che per vincere una battaglia», prosegue Mondini. Allo scopo «di far precipitare la crisi rapidamente verso una soluzione extraparlamentare» mettendo fuori gioco ogni tentativo di «compromesso che prevedesse il ritorno di Giolitti o di qualche altra figura di garanzia». La «fretta e il cinismo» di Mussolini fecero sì che «quella che avrebbe dovuto essere l’ultima tappa gloriosa della rivoluzione venisse improvvisata più che pianificata». Un «misto di dilettantismo e di faciloneria» il cui scopo era sostanzialmente quello di «esibire il maggior numero di camicie nere (possibilmente rumorose e minacciose)» senza «dar loro una qualsiasi possibilità come forza eversiva». I «quadrumviri» (Italo Balbo, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi) ebbero appena il tempo di abbozzare un piano operativo. Alquanto dilettantesco, a dire il vero. Il comando generale dell’operazione fu installato all’hotel Brufani di Perugia da dove, per la distanza e a causa di strade malridotte, non ci fu mai «la possibilità di coordinare alcunché».
Quando Balbo illustrò il piano a Dino Grandi, la reazione di quest’ultimo fu di sconcerto. In Il mio Paese. Ricordi autobiografici (il Mulino), Grandi ricorda di essersi molto preoccupato e di aver detto: «Tutto questo è una follia!». Ancor più significative le memorie del giovanissimo squadrista toscano Mario Piazzesi, che raccontò di «migliaia di ragazzini costretti a spostarsi alla spicciolata per raggiungere le zone di ammassamento distanti spesso centinaia di chilometri». E che poi «finirono per disperdersi». Poco o nulla coordinati da un comando della milizia che aveva occupato Perugia senza colpo ferire, ma di lì, «isolato a duecento chilometri dalle basi di partenza della marcia e senza comunicazioni o quasi», non riusciva a coordinare un bel niente. La mancanza di regia fu tale che, scrive Mondini, a Pisa, Firenze e Cremona «i fascisti locali attaccarono prefetture e palazzi delle poste con ore di anticipo seminando il panico tra i quadrumviri». I quali – nei ricordi di Balbo in Diario 1922. Le camicie nere alla conquista del potere (Leg edizioni) – per qualche istante ritennero il piano «compromesso» e cominciarono a considerare l’idea di lasciar perdere.
Anche quando riuscirono a raggiungere le «zone di ammassamento» gli squadristi diedero di sé un’immagine assai disordinata. «Ventidue chilometri sotto la pioggia battente, ché tanti sono tra Civitavecchia e Santa Marinella», ricordava Piazzesi, «digiuni da ieri, in una dispensa trovammo degli scatoloni di biscotti per cani e ci trasformammo in tali». Il punto è che, secondo Mondini, «nessun fascista sarebbe riuscito a vedere le mura romane, almeno fino al 30 ottobre». Era bastato distaccare alcune centinaia di fanti, genieri e carabinieri lungo le arterie che portavano a Roma per sbarrare le rotabili, divellere i binari e interrompere l’intera «marcia», senza praticamente sparare un colpo. Ventiduemila fascisti vennero bloccati lungo un perimetro che nel migliore dei casi era esterno all’attuale Grande raccordo anulare e nel peggiore addirittura fuori dal Lazio.
Fu solo nelle ore successive a quelle in cui Mussolini era giunto a Roma per essere incaricato da Vittorio Emanuele III di dar vita a un nuovo governo (30 ottobre), che «inzaccherati, esausti, furibondi, i militi della rivoluzione facevano il loro ingresso nella capitale, sfidando la resistenza dei quartieri popolari per avere almeno la soddisfazione di poter raccontare una battaglia». Lo scontro si ebbe nel quartiere di San Lorenzo che «si difese con ogni mezzo, contò alla fine una dozzina di morti», ma almeno poté proclamare che la «loro» Roma non aveva accolto il fascismo a braccia aperte. Fu l’unica resistenza degna di questo nome contro le camicie nere trionfanti.
Sul fronte dello Stato, secondo la testimonianza di Emanuele Pugliese, comandante della divisione di fanteria di Roma – nel libro Io difendo l’esercito (editore Rispoli) – il governo si era mostrato «totalmente disinteressato a tutto ciò che riguardava la protezione della capitale». A fine settembre Pugliese elaborò un piano. Ma il comando del Corpo d’armata ci mise venti giorni per trasmetterlo al ministero (ufficialmente «perché il comandante, tenente generale Edoardo Ravazza, era in licenza»). Poi venne il tempo di una lunga, estenuante discussione. Solo il 24 ottobre, mentre quarantamila fascisti partecipavano a Napoli a un’adunata che venne da molti considerata l’«anticamera dell’insurrezione», il piano fu approvato. Questi preparativi, scrive Mondini, si svolsero «nel più totale disinteresse dei membri del governo» – a partire dal Presidente del Consiglio Luigi Facta – «per lo più scettici sulla realtà di una spedizione fascista sulla capitale». Quando le comitive dei partecipanti che tornavano dall’adunata partenopea transitarono dal nodo ferroviario di Roma, Facta sentenziò che non c’era più nessun pericolo («credo ormai tramontato progetto marcia su Roma», furono le sue parole).
Poi dei giorni caldi Pugliese avrebbe ricordato «il sempre più esasperante clima di indifferenza che circondava ogni discussione sui problemi concreti posti dai militari e dagli addetti alla direzione generale di Pubblica sicurezza». Pugliese, «ufficiale di mestiere con alle spalle un brillante servizio in guerra, lealista di ferro come tutti i militari provenienti dalla comunità ebraica piemontese», non riusciva a spiegarsi come mai nessuno avesse pensato ad affidare subito alle Forze armate i pieni poteri per la difesa della capitale. Gli parve incredibile che i reparti dell’esercito rimanessero chiusi in caserma fino al 27 ottobre, impediti a muoversi senza un’autorizzazione esplicita di questura e prefettura. Armando Diaz e Pietro Badoglio garantirono al re che l’esercito avrebbe fatto il suo dovere (anche se era consigliabile «non metterlo alla prova»). Ma la preoccupazione era assai diffusa. Nell’estate dello stesso 1922 Arturo Labriola, esponente di spicco del socialismo riformista, aveva detto: «La prima domanda che un uomo di governo si fa quando si deve adoperare l’esercito per un fine di ordine pubblico è: l’esercito risponderà?». Quello di Labriola, secondo Mondini, era un modo indiretto di descrivere «la degenerazione delle Forze armate, sempre più politicizzate e sempre meno inclini a obbedire al potere civile legittimo». A un secolo di distanza, «le sue parole descrivono ancora bene l’angoscia di una classe dirigente ormai convinta di non avere più mezzi per difendere la legalità».
Da notare che Badoglio approfittò dell’occasione per conquistare favori politici, così da ottenere che gli fosse restituita la carica di capo di Stato maggiore toltagli, l’anno precedente, dai suoi parigrado. «La leggenda di Badoglio antifascista e garante della tradizionale apoliticità dei militari», nota Mondini, «nacque così, dal tentativo di un generale ambizioso e intrigante di accreditarsi come difensore delle istituzioni». Salvo poi rinnegare tale tentativo negli anni Venti, quando Mussolini lo richiamò ai vertici delle Forze armate. E, dopo la caduta del fascismo, «rispolverarlo, come merito agli occhi della nuova Italia democratica». In ogni caso Vittorio Emanuele III tagliò corto, nel giro di poche ore rifiutò di proclamare lo stato d’assedio e conferì a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo.
Ma, prosegue Mondini, le vere fotografie che ritraggono l’accaduto non sono quelle del 28 ottobre, bensì le immagini del 4 novembre allorché, inizialmente davanti a Santa Maria degli Angeli (con un Mussolini confuso nella folla) e poi al sacello del Milite ignoto si celebra l’anniversario della vittoria italiana nella Prima guerra mondiale. Lì non ci sono tracce della «rivoluzione» della settimana precedente. Il Duce è assieme a un nugolo di personalità che paiono non rendersi conto di quel che è appena accaduto e sta per accadere. Lo sguardo di Mussolini, sceso dalle grandi scalinate del Vittoriano, fissa poi l’obiettivo del fotografo e, dopo essere stato uno tra i tanti che hanno partecipato alla cerimonia, «è di nuovo il capo indiscusso e trionfante, ma generoso, che invece di stravincere ha radunato intorno a sé un governo di uomini savi per il solo bene dell’Italia».
Mussolini sapeva bene – come notò Guglielmo Ferrero in Da Fiume a Roma (Athena) – che il suo governo era nato non già da una rivoluzione bensì da un «duello di impotenze»: «l’impotenza dell’ordine legale a fermare un movimento eversivo e l’incapacità di quest’ultimo di rovesciare con la violenza le istituzioni». A dispetto delle celebrazioni della «marcia» che avrebbero caratterizzato l’intero Ventennio, a qualsiasi testimone con un minimo di buon senso fu evidente fin dall’inizio che la nascita di quel governo presieduto da Mussolini «non era dovuta a un colpo di Stato e men che meno alla minaccia della grottesca armata delle camicie nere». Già Renzo De Felice in Mussolini il fascista (Einaudi) si fermò a riflettere su quel primo governo in cui, oltre allo stesso Duce (che però manteneva per sé anche i portafogli di Interno ed Esteri) c’erano solo tre esponenti del Pnf. Gli altri ministri erano popolari, liberali, nazionalisti, indipendenti. In molti, per una lunga fase iniziale, diedero un qualche credito all’avventura iniziata il 28 ottobre del 1922. Persino un grande antifascista come Giovanni Amendola – lo ha messo in evidenza Emilio Gentile in E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma (Laterza) – sostenne che era «onesto non negare la sua buona volontà». E aggiunse: «vedremo alla prova la capacità, i risultati».
La fiducia al governo venne votata da una maggioranza amplissima dei deputati (306 voti a favore; in pratica si opposero soltanto socialisti, comunisti e repubblicani). E quasi altrettanti furono, a fine novembre, un mese dopo la marcia su Roma, i voti che conferivano allo stesso governo poteri eccezionali. Poi, nel gennaio del 1923, Vittorio Emanuele III firmò il decreto istitutivo della Milizia. Da quel momento, scrive Mondini, «senza che i ministri non fascisti sollevassero alcun problema, il governo del re rinunciò al monopolio della violenza legittima per condividerlo formalmente con una milizia di partito». Un’anomalia «non certo solo italiana nella turbolenta Europa novecentesca». Ma che «poneva nuovi dubbi sulla natura dello Stato di diritto». Commentatori e intellettuali dell’epoca si divisero tra coloro che ritenevano quell’esperienza un bene perché «avrebbe consentito al Paese di uscire dal caos» e altri, «compresi democratici sinceri e colti come Gaetano Salvemini», convinti che Mussolini e i suoi «sarebbero comunque caduti di lì a qualche tempo». Ciò che poteva considerarsi «un peccato» perché «erano comunque meglio della vecchia casta parlamentare inetta e corrotta». Più che con la marcia su Roma, si può rilevare come sia con le imbarazzanti eredità dei due anni successivi che siamo ancora costretti a fare i conti.