Corriere della Sera, 14 settembre 2022
Le mille storie dell’Asinara
Niente ombrelloni, niente sedie a sdraio, niente biondone in micro bikini né tavolini col mojito ghiacciato, beach-volley, musica sparata, pedalò ed esercizi total body: «Ma che c’annamo a fa’?», si sarà chiesto anche quest’estate qualche discotecaro finito per sbaglio sul traghetto da Porto Torres al porticciolo di Cala Reale e sfinito dall’attesa del traghetto di ritorno. Non bastasse, i più ignari, del tutto digiuni di essere in un Parco Nazionale istituito venticinque anni fa, saran basiti davanti all’ultima scoperta: in gran parte delle acque meravigliose dell’isola, circondata da 118 chilometri di coste, non solo non si può sfrecciare con l’acquascooter ma neppure fare il bagno. «Manco un Papetee?». Manco.
L’inarrivabile Paola Cortellesi, innamorata della spiaggia di Coccia di Morto, non ci andrebbe manco pagata. Altri, non solo devoti all’ambientalismo o seguaci di Greta ma semplici amanti del bello, pagherebbero oro per poterci andare più spesso. Ma certo che ci sono spiagge, e che spiagge! Gabriela Scanu, che del Parco è commissaria straordinaria, spiega che da Cala d’Arena a Cala Sabina, da Cala Sant’Andrea ad altre ancora «sono un incanto: farci il bagno è meraviglioso. Ed è possibile, basta seguire le regole. Che sono quelle, appunto, di un parco. Non degli stabilimenti balneari». Un parco e una riserva marina dove, riassume Stefano Bionda, il veterinario che va e viene da Sassari, «ci sono almeno 2.000 capre, 300 asini, 118 cavalli liberi, 700 bellissimi mufloni ma anche, purtroppo, un numero spropositato di cinghiali e peggio ancora di ibridi di maiali e cinghiali. Che causano danni gravissimi». Dura da spiegare, agli animalisti...
L’isola di Ercole
«Quest’estate sta andando benissimo e saremo intorno ai centomila visitatori», sorride soddisfatto Vittorio Gazale, il direttore del Parco. Pochissimi, diranno gli sviluppisti del turismo balneare che teorizzano da anni l’«aggiornamento» della legge sulla tutela delle coste promossa dall’allora governatore Renato Soru. Perché rinunciare a nuovi villaggi, villini, villette, condomini e ipermercati? Resta memorabile uno spot di una manciata di anni fa che sventolava l’offerta sulle dune di Badesi di case «davvero sulla spiaggia» a 115.000 euro. Il costo di un bilocale sul litorale laziale. «In posti così sono soldi spesi bene!».
Anche l’Asinara, che nei tempi antichi veniva chiamata «l’isola di Ercole» («Narra la leggenda», spiegò lo scrittore Pino Cacucci, «che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra. E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata») ha rischiato di fare quella fine. Un giorno saltò fuori, nella scia della Costa Smeralda, perfino l’ipotesi di un delirante mega-progetto che comprendeva la costruzione di un casinò. E già c’era chi sognava fantastilioni di miliardi. Tutte cose che facevano inorridire Indro Montanelli già nel 1958, quando sparò a zero su un nuovo albergo «che si erge in una delle più stupende baie del mondo, mezzo spiaggia e mezzo scoglio, i fianchi rinserrati fra picchi dolomitici che strapiombano sul mare rossi come ferite aperte e trivellati di grotte dalle acque fosforescenti. Quando ci arrivai, mi mozzò il fiato per lo sgomento. Non è un albergo. È un aeroporto. Un frigorifero. Un impianto per esperimenti atomici. A chi diavolo poteva essere saltato in testa un simile mostro?».
Certo è che quei «pochissimi» turisti rispetto a isole più piccole ma stracolme, spiega Gazale, sono una scelta precisa: «Non vogliamo superare il tetto di un migliaio di visitatori al giorno. Non ce lo possiamo permettere». E snocciola le email di larga parte dei visitatori entusiasti di essersi fatti scorrazzare in giro per i percorsi dell’Asinara nel cuore di una natura rimasta intatta: «Per favore, va bene così, non vogliamo gli ingorghi anche qui. Grazie». Subito al di là dell’Isola Piana, a Stintino, dove gli antichi abitanti dell’Asinara, i pastori di origine locale e i pescatori originari di Camogli o Ponza, furono deportati nel 1885 per fare di tutta l’isola un penitenziario e una Stazione Sanitaria, La Pelosa (esaltata da TripAdvisor come «la più bella spiaggia del mondo») sta lì a ricordare i danni di certe orde turistiche. Dopo crescenti accuse degli ambientalisti («troppa sabbia rubata, troppi rifiuti, troppa plastica») è tornata al numero chiuso. Non è una questione di diritto di tutti d’andare dappertutto, ma di decoro.
Le nozze di Cutolo
Una scelta obbligata. Come quella del Parco dell’Asinara di offrire ai visitatori mille alternative: dalle escursioni a piedi sui sentieri interni con guide esclusive ai percorsi in pulmino dentro una natura rimasta intatta o tornata anzi sempre più selvaggia dopo la chiusura del carcere che ospitò i detenuti più pericolosi d’Italia, da Totò Riina al camorrista Raffaele Cutolo che nella piccola cappella del penitenziario si sposò con Immacolata (rimasta tale pure dopo: «Che m’hanno sposata fare se non posso consumare?»), o ancora con escursioni in fuoristrada, noleggio di biciclette o anche auto elettriche e canoe... Tutto, purché questi turisti non pretendano di colonizzare l’isola. La stessa Simona Latte, della Locanda del Parco Asinara a Cala d’Oliva, l’unico (piccolo) albergo per dodici ospiti aperto nel 2018 (la sola alternativa è l’ostello assai spartano con 70 letti nell’ex caserma) riconosce che sì, certo, l’isola deve conservare la sua dimensione estranea al turismo invasivo: «Ma lo Stato, la Regione, le soprintendenze dovrebbero aprire spazi alle possibilità di offrire molto di più. Mostrando i luoghi di tante storie...».
E questo è il punto: l’Asinara è ricca non solo sotto il profilo naturalistico, ma più ancora di storie, storie, storie... Come quella di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, per preparare il maxi-processo di Palermo, furono costretti nel 1985 a passare un mese lì, sull’isola proibita, rinchiusi nella famosa Casa Rossa di Cala d’Oliva in cui un mese fa è tornato per la prima volta Manfredi Borsellino, legatissimo all’allora ispettore carcerario Gianmaria Deriu che vigilava su di lui e tutta la famiglia: «Ricordo d’avere trascorso quasi un mese in una sorta di paradiso terrestre e di essermi sentito protetto come poche volte nella vita».
E poi storie più recenti, come quella dell’«Isola dei cassintegrati», nata quando nel febbraio 2010 un gruppo di operai rimasti senza lavoro a Porto Torres, sulla scia del successo televisivo de L’Isola dei famosi, andò ad occupare il carcere da anni abbandonato per denunciare l’ingiustizia che avevano subito. Un’idea straordinaria, che bucò lo schermo al punto che lo stesso Giorgio Napolitano invitò i «ribelli» in Quirinale per capire le loro ragioni. Quattordici mesi di occupazione, racconta Tino Tellini, senza lieto fine: «Non si ricordano di noi neanche le guide che portano i turisti a guardare, da fuori, il carcere». E ancora storie più lontane, come quella che a 91 anni racconta l’ultimo guardiano del faro, Gianfranco Massidda, che per trent’anni visse a punta Scorno «isolato nell’isola» (potevano allontanarsi solo un mese l’anno) con la moglie e la figlia Marina: «Mi ricordo come fosse ieri il giorno del 1937 in cui mio padre Guglielmo, che faceva il telegrafista, mi spiegò chi fosse quella misteriosa signora nera che con due bambini e un gruppetto di altri neri viveva nelle tre “pagode”, così le chiamavano, dietro la Stazione Sanitaria. Era la figlia maggiore dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié. Una donna bellissima. Malinconica. Gedeon, il più piccolo dei bambini ai quali portavo qualche caramella, morì lì. Tifo o colera, non so...». Si chiamava Romanework, la principessa, in etiope «Melagrana d’oro». Aveva perso suo marito, un ufficiale del Negus, in guerra e Mussolini aveva ordinato che la mandassero lì all’Asinara al confino. Per poi farla trasferire in un convento di Torino. Dove fu cancellata perfino da morta: niente rimpatrio della salma, niente cremazione, niente nome sulla tomba.
Soldati e migranti
Non meno tragica, anni prima, era stata la sorte dei soldati austro-ungheresi rimasti prigionieri nell’autunno 1915 nel cuore dei Balcani dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia e trasferiti dall’Albania per volontà delle potenze dell’Intesa (Regno Unito, Francia, Serbia e Russia più in seguito Italia e Stati Uniti) all’Asinara. Totale dei deportati sull’isola: 23.379. Un ammasso spaventoso, scriverà la storica Eugenia Tognotti: «Ben presto, quelle che gli antichi medici chiamavano “malattie castrensi” (dissenteria, tifo, ecc.) perché diffuse tra gli eserciti, cominciarono a decimare il cencioso contingente dei prigionieri, tormentati dalla vista dei corpi martoriati dei morti e dalle grida dei morenti. Ma ancora più grave era la malattia della fame, che – scriverà in seguito un ufficiale, Guido Scano, allora giovanissimo sottotenente in servizio all’Asinara – “aveva abbruttito quegli esseri umani sino a farli diventare cannibali”». I morti, alla fine, furono 4.574. Li ricordano un ossario e una piccola cappella.
Non un capitello, una lapide, una targa, ricordano invece un’altra strage dimenticata. Quella di tanti emigranti italiani che, respinti dal Brasile, dall’Argentina, dai Paesi dove sognavano di vivere perché decimati da epidemie scoppiate a bordo delle navi, furono portati all’Asinara per una quarantena prima del rimpatrio alle contrade d’origine. La testimonianza che più toglie il fiato è quella di Cesare Malavasi che, tornato a Modena, scrisse «L’odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1.500 emigranti respinti dal Brasile». Dove raccontò anche di quella quarantena da incubo sull’isola: «Le fosse erano scavate nel vivo sasso, col mezzo delle mine. Quivi erasi saputo da tempo che 4 vapori con un 7.000 persone a bordo, e che avevano delle malattie infettive, sarebbero venuti a fare quarantena; e forse per questo eransi preparate 6 fosse colla profondità di metri 3 circa nelle quali venivano buttati cadaveri» finché non fossero state riempite fino all’orlo. Arrivati a Napoli dopo sessantacinque giorni d’agonia, i superstiti furono invitati dagli armatori a rifondere le spese del viaggio... Poi condonate con ipocrita «generosità»...
Ecco, questo potrebbe essere l’obiettivo dell’Asinara. Diventare, in una terra dura già così bastonata nei secoli, l’«Isola delle storie». Dove ricostruire un rapporto migliore, almeno lì, tra la natura e gli uomini.