Corriere della Sera, 14 settembre 2022
Intervista a Giorgio Parisi
Lo sa di essere il premio Nobel più popolare dell’epoca moderna?
«Noooo. C’è chi lo è stato più di me a livello mondiale. Sicuramente mi batte l’americano Richard Phillips Feynman fra quelli del dopoguerra. Era simpaticissimo, spiritosissimo, brillantissimo, suonava il bongo, vinse nel ‘65. Quando parlava incantava», si schermisce Giorgio Parisi.
Sembra divertito, nel chiacchierare del più e del meno, celiando con l’accattivante erre moscia su piccole curiosità del suo privato. Un Parisi inedito, l’altra faccia del grande professore di teoria quantistica.
Non si sottovaluti. In Italia tutti la conoscono, specie dopo lo spot pro vaccinazione anti Covid girato per il ministero della Salute. Il suo discorso sul cambiamento climatico ha costituito la traccia di uno dei temi della maturità. Non le capita di essere fermato per strada, di essere accolto come uno di noi?
«Bé, sì. Però anche Rita Levi Montalcini ha goduto di notorietà. Certo, aveva un’aria più distaccata, forse poco empatica. Si vestiva in modo impeccabile, elegante, mai un abbinamento di colori sbagliato».
Vuole dire che lei, al contrario, si veste male?
«Questo no, tento di essere sempre a posto senza ricercare l’eleganza come faceva Rita, che ho incontrato diverse volte. Fino a poco tempo fa indossavo raramente la cravatta. Però da quando sono cominciate le cerimonie post Nobel e ho l’impegno all’Accademia dei Lincei, dove sono vicepresidente, mi tocca mettermi come si deve. Non è fastidiosa tanto la cravatta quanto sentire la camicia che stringe attorno al collo. Poi sa, nell’istituto di Fisica della Sapienza non è che sia richiesto l’abito scuro. Alcuni girano addirittura con il maglione bucato sui gomiti. A questo non sono mai arrivato, no».
Come è nato lo spot pro vaccinazione?
«La proposta è venuta dal ministero. Ho concordato un testo dopo essermi confrontato con i miei amici immunologi. Così siamo arrivati allo slogan: problema complesso, soluzione semplice».
Come si è trovato nel ruolo dell’attore?
«A mio agio, in realtà recitavo me stesso. Ho dovuto riassumere in 45 secondi le stesse considerazioni che avrei espresso spontaneamente in modo più dettagliato al bar con gli amici. Da giovane ho fatto anche l’attore».
Racconti.
«Per festeggiare in modo goliardico la laurea di alcuni amici, affittammo per tre giorni il teatro di Tor di Nona. Già frequentavo la mia futura moglie, Daniella. Eravamo fidanzati. Lei, grecista, conosceva bene le opere di Aristofane, così pensò che la migliore rappresentazione per quell’evento sarebbe stata la Lisistrata, in forma non integrale. Io interpretai la parte di Cinesia».
I novax hanno preso di mira anche lei?
«Ho ricevuto qualche messaggio nella posta elettronica. I soliti improperi. Sei un delinquente, fatti i fatti tuoi, ti rendi colpevole dei morti di vaccino eccetera. Non mi toccano più di tanto»
Ai tempi dell’università aveva comitive?
«C’era molto rimescolamento fra studenti delle diverse facoltà. Ci incontravamo ora alla sezione universitaria del club alpino, il Sucai, ora agli scout, ovunque ci fossero aggregazioni giovanili».
Lei soffre di vertigini, che c’entra col Sucai?
«Infatti, non ci pensavo nemmeno a salire in alto, a me basta la sola idea di avere lo strapiombo sotto i piedi per avvertire il terrore. Ho fatto questo esempio per dire che c’era un grande scambio di amicizie. Non mi richiudevo nell’ambiente dei fisici. E poi vede, il 1968 era già passato ed aveva agito da collante fra facoltà».
La fisica è stata una predestinazione?
«Non pensavo da liceale a cosa avrei fatto nella vita. Ero bravo in matematica, mi interessava l’astrofisica e papà dedusse che mi sarei iscritto a ingegneria. Dopo essermi diplomato con un anno in anticipo cominciai a guardare al futuro. Ingegneria non mi ispirava, biologia neppure. Ero indeciso tra matematica e fisica. Ho scelto quest’ultima perché documentandomi ero riuscito a farmene un’idea precisa. Non trovai fonti invece che rendessero comprensibili le scoperte della matematica del ‘900».
Suo papà Peppino, da uomo pratico, avrà cercato di farle cambiare idea.
«Ci è rimasto male, alla fine ha abbozzato. Era un ingegnere mancato. Come geometra non superò l’esame di abilitazione necessario per iscriversi a quella facoltà. Allora deviò su Economia. Entrò alla Cassa del Mezzogiorno, si occupava dei rapporti con le ditte».
Liceo scientifico al San Gabriele, istituto privato che non spiccava per qualità di insegnamento. Come mai?
«Abitavamo a viale Parioli, proprio lì vicino. In effetti nella mia classe c’erano alcuni compagni bocciati nei licei più tosti, come l’Avogadro».
Com’era da bambino?
«Introverso, poco socievole. Non mi piaceva il calcio che fungeva da collante per entrare nel giro».
Con sua moglie è stato colpo di fulmine?
«Ci siamo piaciuti forse perché eravamo così diversi e venivamo da ambienti diversi, lettere e fisica. La chimica dell’amore è complicata».
Pensa di essere stato un buon marito?
«Sì».
C’è tempo per lo sport nella quotidianità di un Nobel?
«Ci sarebbe, eppure io non ne pratico abbastanza. Amo nuotare in mare, ho smesso di sciare a causa di una brutta ernia del disco. Ho il terrore di fratturarmi le gambe. Più si diventa anziani più si ha paura di non poterle riaggiustare. Cammino, cammino molto, questo sì. Anche un’ora a Villa Ada, non lontana da casa mia, almeno tre volte a settimana. Quando è molto caldo mi sveglio alle 6 per uscire col fresco e non saltare l’appuntamento».
Tra le attività sportive non include la salsa e la bachata, i balli di cui è appassionato, scoperti da giovane in un centro sociale romano?
«Da quelli sono passato al Forrò, la più diffusa danza popolare di coppia del nord est brasiliano, per continuare poi con il sirtaki e altri balli tradizionali della Grecia, di Epiro e Macedonia. Durante il Covid ho dovuto smettere e non ho ancora ripreso, ahimè».
Come padre si è sempre dedicato alla famiglia. All’ora di pranzo tornava a casa appositamente per pranzare con i suoi due figli, Lorenza e Leonardo. Ora ha tre nipoti. Si reputa un nonno altrettanto bravo?
«Ho due nipotini di pochi mesi e uno di 5 anni, Martino. A causa del Covid per due anni ci siamo visti raramente e stiamo cercando di recuperare. A Martino racconto tante favole, mi rivolge una raffica di domande in particolare sui pianeti perché gli interessa il sistema solare. Quando ho vinto il Nobel, a scuola i compagni lo hanno festeggiato. È venuto alla cerimonia di premiazione, nell’aula del Rettorato alla Sapienza a Roma e poi alla cena in ambasciata dove ha fatto incetta di medaglie al cioccolato».
E la medaglia d’oro vera, dove l’ha esposta?
«Attualmente è in cassetta di sicurezza in banca. Sa, è in oro massiccio, 18 carati, sarei dispiaciuto di non trovarla al ritorno dalle vacanze. Chissà, forse deciderò di esporla nella sede dell’Accademia dei Lincei».
È vero che lei va matto per la crostata di visciole?
«Sì, mamma ne preparava di buonissime. Nella casa di campagna, in Sabina, dove ancora andiamo, c’è un albero che ne produce in generose quantità. Sono goloso, lo confesso. Mi trattengo con i dolci per questioni di colesterolo».
Che rapporto ha con la salute?
«Sono ipocondriaco. Se accanto a un valore delle analisi compare un asterisco mi preoccupo subito e penso di avere una malattia grave. Se la scoprissi davvero, non mi perdonerei di non aver fatto abbastanza per prevenirla, o di aver trascurato i sintomi. Tendo ad andare dai medici per essere rassicurato. Mi fido della classe medica. Un esempio. Oggi ho dovuto risolvere un piccolo problema che mi ha portato in farmacia a comprare antibiotici, su prescrizione dello specialista. E mi sono completamente dimenticato del nostro appuntamento».
Il 26 agosto ha ritirato il premio Capalbio per il libro «In un volo di storni, la meraviglia dei sistemi complessi», che lei ha dedicato a sua moglie. Qual è il fascino di questi volatili per un fisico?
«Lo stesso fascino che hanno agli occhi di chi non è un fisico. Gli storni cambiano in velocità le loro coreografie che assumono una forma tridimensionale. Noi, oltre a me 11 colleghi italiani e stranieri, abbiamo fatto un esperimento per fotografarli e ricostruire le loro posizioni in volo. Quando hai da seguire quattromila esemplari, l’analisi è complessa».
Soluzione semplice?
«No, in questo caso molto faticosa, ci sono volute tre campagne di osservazione per raccogliere i dati. Non è come la vaccinazione, quella è evidente che bisogna farla. L’articolo dello studio pubblicato sulla rivista Physics Today è il sesto più citato in assoluto di tutti i miei lavori».
Sicuro di non sentirsi amato come il collega americano Feynman? Gli studenti della Sapienza non fanno che fermarla e lei accetta volentieri di parlare con loro. Ricorda un po’ Einstein che accoglieva i bambini in casa per aiutarli nei compiti di matematica.
«In effetti sono uno di quei professori che amano stare con i giovani e li tengono in considerazione. Mi sentono uno di loro in quanto mi sono molto battuto in favore del finanziamento di università e ricerca. La rivista Nature ogni anno assegna un premio agli scienziati valutati come i migliori maestri. Nel 2013 nella triade degli italiani c’ero anche io».
Chissà quanti partiti avranno tentato di trascinarla nelle liste delle prossime elezioni.
«Non ne ho ricevuta nessuna. La politica mi interessa, candidarmi invece no. Forse hanno capito che non tirava aria».