La Stampa, 14 settembre 2022
Le nuove rotte dei migranti
«Loujin è morta a causa delle politiche europee. Morta tra le braccia della madre mentre diceva: ho sete». Così pochi giorni fa l’attivista Nawal Soufi ha denunciato la morte di Loujin, siriana, quattro anni. Morta di sete mentre con la sua famiglia cercava di raggiungere un porto sicuro. Era partita dal Libano con la madre e la sorella. Ma a dividere le loro speranze e la destinazione Europa ci sono stati dieci giorni senza cibo né acqua. Dieci giorni di richieste d’aiuto a Malta prima, alla Grecia poi e da ultimo ai mercantili di passaggio. Dieci giorni di Sos ad Alarm Phone e di indifferenza europea. Finché le autorità greche non hanno spedito un mercantile a soccorrerli ma per la bambina non c’era più niente da fare. Corpi simili, sfiniti dal sole e dalla fame, bambini disidratati e assetati, sono arrivati due giorni fa a Pozzallo. Almeno i sopravvissuti, al recupero condotto dalla motovedetta Cp 325 della Guardia Costiera. Un altro barcone alla deriva, salpato dalla Turchia senza abbastanza cibo né acqua. Due settimane in mare, i naufraghi alla deriva che gridano, un mercantile che si avvicina e non li salva. L’equipaggio getta una cassa d’acqua che però i naufraghi non riescono a recuperare. Altre grida, altri Sos inascoltati. Trenta vite disperate le cui sorti sono state note per giorni, senza che partissero tuttavia, gli aiuti tempestivi che avrebbero salvato loro la vita. Poi il gruppo di ventisei naufraghi – afghani e siriani – è stato soccorso 70 chilometri a Sud di Portopalo e trasferito a Pozzallo. Ma per sette persone, tra cui due bambini di uno e due anni, era troppo tardi. Anche loro, come Loujin, sono morti di fame, di sete e di indifferenza.
Le morti oscurate
«Tutto questo è inaccettabile – ha detto la rappresentante dell’Unhcr Chiara Cardoletti a seguito delle due tragedie. Rafforzare il soccorso in mare è l’unico modo per evitare che accada di nuovo». Secondo l’agenzia Onu sono già 1.200 le persone morte o disperse nel 2022 nel tentativo di attraversare il Mediterraneo ma tanti, troppi di loro, giacciono in fondo al mare, non visti, non soccorsi, non contabilizzati nella ragioneria barbara dei costi umani delle frontiere chiuse e delle crisi aperte. Le due tragedie degli ultimi giorni, i bambini morti di sete, ricordano all’Europa due cose. La prima è che chiudere – o immaginare di farlo – una rotta migratoria, porta sempre ad aprirne un’altra spesso più pericolosa e comunque illegale. Perché nel tempo in cui la politica mette in atto strategie di contenimento ed esternalizzazione dei confini, le crisi che erano irrisolte anni fa, sono precipitate. Crisi da cui l’Occidente si è distratto, pensando che bastasse pagare Paesi terzi per sollevarsi dalla responsabilità di gestire l’inclusione di rifugiati in fuga da guerre e povertà. Ma mentre l’Occidente volgeva lo sguardo dall’altra parte, continuando a pagare le cambiali del consenso alla Turchia e alla Libia, la crisi economica, gli effetti della pandemia e l’onda lunga della guerra ucraina, hanno colpito Paesi che, già fragili, sono precipitati. È il caso del Libano. Paese che da anni, manda segnali – una volta ancora inascoltati – di una rotta migratoria che non poteva che diventare mortale.
Libano, primavera e estate 2022
Lo scorso aprile una barca, progettata per contenere una dozzina di persone e che ne trasportava 84, si è capovolta al largo delle coste libanesi vicino a Tripoli dopo essere stata intercettata dalla guardia costiera. Solo quaranta i sopravvissuti. Gli altri, tra cui almeno sei bambini, sono morti annegati. Solo una decina i corpi recuperati quando erano già in stato di avanzata decomposizione. Un membro dell’equipaggio di Aus Relief, sottomarino di ricerca e soccorso di una missione australiana, ha raccontato di aver visto in fondo al mare «una donna bloccata a metà di una finestra con in braccio il suo bambino... nel tentativo di proteggerlo».
All’inizio di giugno, l’esercito libanese ha arrestato 64 persone nel Nord del Paese che stavano tentando di salire a bordo di una nave di contrabbando diretta a Cipro. Tra loro c’erano diversi cittadini libanesi, spinti alla disperazione da gravi difficoltà economiche.
A fine agosto un barcone con a bordo un centinaio di rifugiati siriani è stato bloccato all’ingresso delle acque cipriote e riportato indietro in Libano sulla base di un controverso accordo tra Nicosia e Beirut che prevede che i profughi siriani siano respinti indietro se intercettati in mare. Più volte i funzionari delle organizzazioni umanitarie europee hanno accusato Cipro di respingimenti illegali e li hanno accusati di negare e chi è in fuga dalla guerra del diritto di presentare richiesta d’asilo. Nicosia non ci sta. E risponde che il governo non rifiuta richiedenti asilo ma migranti economici. Nella guerra dei distinguo terminologici, uomini donne e bambini continuano a partire sempre più numerosi dal porto di Tripoli, a Nord del Libano. Scappano dall’inflazione, dalla disoccupazione, dall’assenza di cibo e carburante e medicine, da un sistema sanitario in rovina e da governo corrotti che in pochi anni hanno creato una tempesta perfetta di povertà e disperazione. Rivolte di piazza, crisi finanziaria, esplosione del porto e Covid19: crisi simultanee che hanno spinto all’esilio migliaia di giovani libanesi, professionisti, medici, insegnanti. Un Paese che, in pochi anni si è svuotato della sua classe media.
A dare il colpo di grazia è stata la guerra in Ucraina che, in un Paese come il Libano totalmente dipendente dalle importazioni, ha portato metà della popolazione a vivere al di sotto della soglia di povertà. Così chi resta deve sopravvivere con la valuta che ha perso in tre anni il 95% del suo valore. A luglio il salario minimo mensile aveva un valore di 23 dollari. Prima del crollo finanziario ne valeva 500. Significa non avere soldi per sfamare i propri figli, significa sentire di non avere più nulla da perdere, significa convincersi che se l’alternativa è morire di fame, tanto vale pagare un trafficante per essere traghettati verso il Paese Ue più vicino, quello a 160 chilometri dalle coste di Tripoli: Cipro.
I segnali inascoltati, le lezioni non imparate
Secondo l’Unhcr, il numero di persone che ha lasciato il Libano via mare è quasi raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020 ed è nuovamente aumentato del 70% nel 2022 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La domanda da farsi è: c’erano segnali? Era possibile prevederlo?
La risposta è due volte sì. Non solo c’erano segnali, ma c’erano numeri, statistiche e denunce.
Dopo il collasso economico del 2019-2020, le coste libanesi sono diventate punto di partenza di gommoni e barche dirette verso Cipro. Ma se prima a partire da Tripoli, la città portuale a Nord del Paese, erano per lo più rifugiati siriani o palestinesi sfiniti da anni di vita nelle tendopoli, frustrati dalla disoccupazione, dall’assenza di prospettiva di un ritorno a casa, a partire dall’estate del 2020, si sono uniti alla rotta anche i cittadini libanesi senza più prospettive. I numeri erano chiari già due estati fa, dati indicativi ma troppo bassi per fare notizia in un’Europa interessata solo a tamponare gli arrivi nel Mediterraneo centrale.
Numeri non solo chiari ma in crescita in una rotta erroneamente considerata distante, come distante pareva la guerra siriana ormai al suo decimo anno.
I flussi migratori, però, non nascono mai come emergenze, ma come conseguenze di situazioni diventate croniche, abbandonate dall’attenzione (e dal denaro) internazionale e poi precipitate. Così è stato in Libano, dove nel 2020 i segni dei nuovi flussi che avrebbero attraversato tutte le sponde del Mediterraneo c’erano già. Bastava leggerli. In due settimane a cavallo tra agosto e settembre venti barche avevano lasciato le coste libanesi dirette a Cipro. Venti in 15 giorni.
Più di quante ne fossero partite complessivamente nei dodici mesi precedenti. Nello stesso periodo la guardia costiera cipriota aveva respinto e espulso trecento persone senza dare loro la possibilità di presentare richiesta d’asilo.
A ottobre di quell’anno, dopo decine di respingimenti e morti in mare, Human Rights Watch pubblicò un lungo e dettagliato rapporto dando conto delle modalità di respingimento di Cipro
I ricercatori dopo mesi di raccolta di prove e testimonianze, sostennero che le autorità cipriote avessero più volte ignorato le richieste di asilo delle persone intercettate in mare e lo stesso fece la Kisa, un’organizzazione non governativa dell’isola che, sulla base delle statistiche della polizia locale, rese noto che le autorità cipriote avessero intercettato e respinto indietro mille persone su imbarcazioni irregolari in pochi mesi. Per i fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungere l’isola, si sono aperte le porte del campo di Pournara a Kokkinotrimithia, un campo all’aperto, sporco, infestato di insetti, in cui l’acqua scarseggia, non c’è abbastanza cibo, ci sono quattro bagni ogni cento persone, le tende sono prive di elettricità e le quattro sezioni del campo invase da rifiuti. Un’immagine che ricorda il nostro hotspot di Lampedusa, le orribili condizioni dell’ormai chiuso campo di Moria a Lesbos. Esempi di una politica che di fronte a flussi prevedibili continua a mostrarsi impaurita e impreparata.
E domani?
Passata l’ondata di indignazione per Loujin e i suoi coetanei morti di sete e indifferenza nel Mediterraneo, resta da chiedersi cosa sarà domani.
Una volta ancora è possibile prevederlo. Una volta ancora l’Europa potrebbe scegliere di essere lungimirante invece di lasciar morire in mare bambini vittime di inazione e colpevole paura di un nemico inesistente.
Due giorni fa la Banca centrale libanese ha annunciato di aver interrotto la fornitura di dollari per le importazioni di benzina. Per un Paese la cui economia è sussidiata nei beni di prima necessità significa indebolire ancora una moneta che è già carta straccia. E se questo piega le famiglie libanesi, è facile immaginare cosa produca nelle famiglie dei due milioni di rifugiati siriani nel Paese. Gli ultimi tra gli ultimi, a cui è stato negato l’accesso al lavoro, all’assistenza sociale, all’istruzione. Gli ultimi tra gli ultimi in fuga da una guerra dimenticata, bambini come Loujin, profuga a quattro anni, quindi nata in esilio. Siriana che non ha mai visto la Siria. Siriana che mai la vedrà. Portata via dalla seconda guerra, quella contro la fame in Libano, dai suoi genitori che avevano voluto immaginare per lei un futuro come i bambini degli altri. I bambini che vivono in pace nei Paesi governati da chi respinge le loro barche e ignora le loro richieste d’aiuto. —