ItaliaOggi, 13 settembre 2022
Una piazza per Schindler
Finalmente Oskar Schindler verrà ricordato a Francoforte. La piazza innanzi alla stazione centrale avrà il suo nome, e quello della moglie Emilie. Non è stato facile. Per mesi si è discusso se fosse opportuno ricordare un poco di buono. Schindler avrà salvato 1.200 ebrei, ma era un profittatore, un donnaiolo, aveva un cattivo carattere. «Se non avesse avuto dei difetti, oggi io non sarei in vita», disse il giudice Moshe Bejski, il giudice dei giusti fra le nazioni, nato nel 1920 a Cracovia, fu salvato da Schindler. Lo invitò a Gerusalemme, lo aiutò quando era ridotto male, fisicamente ed economicamente, e nel 1962 volle che fosse ricordato tra i giusti, suscitando veementi proteste in Israele, non tutti erano d’accordo. Aveva fatto lavorare gli ebrei come schiavi, nella sua fabbrica, collaborando con i nazisti.
Dopo la guerra, Schindler ed Emilie vissero per quattro anni a Regensburg, poi emigrarono in Argentina, ma tutte le imprese fallirono. Nel ’57, Schindler tornò in Germania, e dal 1965 fino alla morte, nel ’74 a 66 anni, visse a Francoforte, nella Bahnhofplatz, al numero 4, in un appartamento di una stanza, nel quartiere a luci rosse, tra bordelli, prostitute, spacciatori, locali di spogliarello, e alberghi da pochi marchi. Finora era stata posta una semplice lapide all’ingresso del palazzo dove visse, e gli è stata dedicata una piccola via in periferia. La piazza della stazione era un omaggio esagerato? Con difficoltà sono state vinte le ultime resistenze, ed è giusto che sia ricordata anche la moglie, scomparsa nel 2001, a 94 anni, che collaborò con lui a salvare almeno 1.200 ebrei. Ma Oskar era un macho, e si prendeva tutti i meriti. «Senza Schindler io non sarei mai nato», ricorda anche Michel Friedman, ex vicepresidente del Consiglio ebraico in Germania, e presidente del Congresso ebraico europeo, «salvò i miei genitori e mia nonna dalle camere a gas di Auschwitz». Giornalista e avvocato, ha appena pubblicato l’autobiografia Fremd, straniero. «Ho esitato a lungo prima di scriverla», spiega, «temevo che venisse letta solo come un ricordo personale, io affronto il rapporto tra tedeschi ed ebrei, oggi, tra memoria e antisemitismo».
Friedman è nato a Parigi nel 1956, dove si erano trasferiti i genitori. Dopo dieci anni tornarono in Germania, «la terra dei carnefici», e lui bambino subì senza comprendere la scelta. A Francoforte, ricorda, Schindler veniva da loro, a pranzo e a cena. «Aveva il sorriso di un leone, era gigantesco come un orso». Una foto lo ritrae accanto a Schindler, suo padrino a Tel Aviv per il Bar mitzwah, il momento in cui un bambino ebreo raggiunge la maturità, a 13 anni e un giorno.
La testimonianza di Friedman è importante. La nonna apparteneva a una famiglia abbiente di Cracovia, e consegnò a Schindler un sacchetto di diamanti, per salvare la figlia che era finita ad Auschwitz. Ma il tedesco accusato di fare affari con i nazisti, con i diamanti corruppe il direttore del lager, Rudolf Höß, e riscattò la madre di Michel, e altre donne ebree. I genitori e la nonna furono salvati, «solo loro tre», ricorda Friedman, «tutti gli altri membri della mia famiglia, zii, cugini, morirono nei lager».
Quando Spielberg volle presentare Schindler’s List nel 1994 in Germania, chiese consiglio a Friedman: «Non a Bonn o a Berlino», rispose, «la première dovrebbe avvenire a Francoforte». Schindler diede ai suoi genitori la speranza di continuare ad avere fiducia nell’umanità, il ricordo di Schindler è stato per lui sempre uno stimolo, la spinta a impegnarsi quando avviene un’ingiustizia.
Nel 2003, nel pieno del successo, Michel Friedman fu coinvolto in uno scandalo, aveva consumato cocaina con delle escort in un hotel di Berlino. Le ragazze erano minorenni? La legge tedesca è paradossale: non è proibito il consumo della droga, ma è vietato procurarsela, e offrirla. I suoi amici lo difesero: è un attacco antisemita. Friedman non volle ricorrere a questa difesa: «Il fatto che sia ebreo non conta, ho fatto degli errori, e devo pagare». Se la cavò con una forte multa, ma la condanna più grave se la inflisse da solo: si dimise da tutte le cariche, rinunciò ai contratti giornalistici, e ricominciò da capo. Un atto di grande coraggio.