La Stampa, 13 settembre 2022
Carlos Alcaraz, il più giovane numero 1 di sempre
Ce lo aspettavamo. Ma non così in fretta. Sapevamo che Carlos Alcaraz era destinato al numero 1, non che ci sarebbe arrivato già a 19 anni e 4 mesi – il più giovane nell’era del computer – alla fine di due settimane impronosticabili. Cinque set strappati a Marin Cilic, Jannik Sinner e Frances Tiafoe, quattro a Casper Ruud (6-4 2-6 7-6 6-3), che da ieri è n.2 del mondo, viceré con merito, nella finale degli Us Open. Un matchpoint annullato a Sinner, 2,6 milioni di dollari incassati, mille punti da consegnare agli highlight del torneo. L’istinto di un torero chiuso nel guscio di un adolescente timido, che dopo i successi di inizio anno aveva sentito la tensione «avevo perso il sorriso e ne ho parlato con il mio coach. Io gioco per il piacere di farlo, e se sorrido gioco il mio miglior tennis». A New York dopo il flop di Montreal e Cincinnati il sorriso è tornato.
Non è il più giovane a vincere uno Slam – Wilander, Becker e Chang ci sono riuscito a 17 anni, Borg a 18, Nadal e Sampras comunque prima di lui – ma il più forte di una nuova stirpe di ventenni che promettono di lasciarsi alle spalle l’Iliade e l’Odissea scritta da Federer, Nadal e Djokovic, per produrre nuovi classici: i primi capitoli li abbiamo già visti a New York contro Sinner, Tiafoe e Ruud. Due anni fa Carlitos perdeva in ottavi al Challenger di Biella, oggi si è messo tutti dietro. Approfittando dell’assenza di Djokovic, è vero; degli acciacchi di Nadal e Zverev, dell’eclisse di Medvedev, della forma precaria di Berrettini. Ma con la grazia del predestinato. «Per me è solo al 60 per cento del suo potenziale», azzarda Juan Carlos Ferrero, il suo coach ed ex predecessore sul trono. «Gli Us Open e il numero 1 sono un punto di partenza».
Paragonarlo ai Tre Grandi è ingiusto, prenotargli una cifra di Slam inutile, perché anche Carlitos è un pezzo unico, e segue lo spirito di un tempo diverso. Il tennis degli ultimi 3-4 anni ha accelerato ulteriormente ma quando ne ha bisogno Carlitos, il demone della rapidità, sa comunque innestare una marcia in più, come nel quarto set contro Ruud. Serve, risponde, si allunga negli angoli, scende a rete appena vede l’occasione, calibra lob e drop shot quasi sempre letali, si raggomitola e distende in volo come un gatto, pronto a graffiare anche in acrobazia. È un tennis che costringe ad allenare l’istinto, e l’istinto di Carlos è attaccare. «La cosa che mi impressiona di più – dice Matteo Berrettini, che ne ha parlato a Bologna ospite del suo sponsor Illumia – è come ha saputo riprendersi dopo l’estate quando per la prima volta aveva sentito la pressione. Merito della struttura che ha attorno». Ferrero, a cui papà Carlos senior lo ha affidato cinque anni fa, dopo averlo svezzato nella quiete semi agricola di El Palmar, provincia di Murcia, e il manager Albert Molina che ha iniziato a credere in lui quando a 11 anni Carlitos non batteva gli altri ragazzini, ma in campo sapeva già fare più cose di tutti. Ci voleva occhio, per vedere già allora che il ragazzo, come disse Pepe Imaz, il guru di Djokovic, emanava «una luce speciale». Ora se ne sono accorti tutti.