La Stampa, 13 settembre 2022
Altra anticipazione dal nuovo “M” di Scurati
Li uccido e salvo milioni di vite oppure non li uccido e salvo la mia?
Questo il menu del secolo. Morire, essere ammazzati, scannati, scuoiati, farciti per il banchetto degli dei pestilenziali, quella è un’ovvietà. Uccidere, però, è ben altra cosa. Uccidere o non uccidere, il dilemma è tutto qui.
L’attesa è stata lunga, spossante, settimane di fantasticherie e impotenza. Lui è soltanto un professore - un archeologo, uno studioso di arte antica, bassorilievi romani e sarcofagi etruschi - che l’ottusità di burocrati ministeriali ha catapultato dalla sua cattedra dell’Università di Pisa sulla ribalta della storia. E per far cosa, poi? La guida turistica ai carnefici in visita di Stato. Per settimane si è tormentato. Foderarsi di esplosivo (ma chi glielo dava l’esplosivo)? Affidarsi alla vibrazione sicura delle armi da taglio (ma chi glielo dava il coraggio di squarciare una gola)? Indicare a un complice il punto esatto in cui l’auto presidenziale avrebbe, su sua indicazione, rallentato e abbassato i finestrini per ammirare un palazzo o un panorama? Ma complici non ne aveva.
Ha perfino fatto le prove, il professore. È uscito di casa a orari improbabili per scoprire se era sorvegliato. Nulla. Si è mostrato in pubblico con notori antifascisti, persino a piazza Venezia e nelle trattorie vicine, per accertare l’eventuale controllo di polizia. Niente di niente. Tutto sarebbe stato possibile. Possibile e inverosimile.
Ora, però, la vigilia è finita. Tre convogli speciali provenienti dalla Germania sono entrati in orario nella stazione di Roma Ostiense, costruita apposta per ricevere con massima pompa i barbari calati dal Nord di fronte alla Porta San Paolo. È una stazione grandiosa, magniloquente, monumentale, una stazione di carta pesta. Ci vorranno anni prima che sia pronta per ricevere il traffico passeggeri ma questo non importa, importa che lo scenario sia allestito, che i lampioni, gli alberi, le traversine siano piegati sotto la massa di bandiere, orifiamme, fasci littori e croci uncinate.
Eccolo il condottiero, la "guida" (niente affatto turistica). Il suo piede è il primo a saggiare il predellino. Atteso da un re, dai dignitari della sua corte, da un dittatore, dai gerarchi del suo Partito, da principi e da ministri, da generali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica, da mogli e concubine, dal corteo dei vivi e dei morti; salutato con gioia dalle Reichsfrauen, le mogli dei pezzi grossi del Terzo impero germanico, affacciate ai finestrini; scortato da un nugolo di SS armate di pugnale, il Cancelliere risale la banchina ferroviaria verso la città eterna.
A prima vista, per quanto ci si sforzi, non si riesce a trovarlo repulsivo. Composto, ordinato, quasi modesto. Quasi servile, anche. Una personalità di aspetto subordinato: qualcosa come un controllore del tram. Le mani guantate di grigio, incrociate sul ventre con il pollice all’altezza del cinturone, un po’ curvo di dorso, piegato in avanti, l’occhio vago e acquoso, sospeso in una sorta di atonia. Insomma, Adolf Hitler non ha il physique du rôle del tiranno da assassinare.
Riguardo all’altro, invece, il professore non avrebbe dubbi. A Ranuccio Bianchi Bandinelli Benito Mussolini appare odioso, grottesco e bruttissimo. Gli pare cammini come un burattino, con curve e mosse oblique del capo, che vorrebbero mitigare la sua mole massiccia ma sono soltanto goffe e sinistre. Il suo viso turgido, lo sguardo lucido, la pelle grassa, il sorriso forzato sono, secondo il professore, al costante servizio di un’incessante commedia puerile. Lo studioso di belle arti, gran borghese con sangue aristocratico, esteta raffinato con velleità di redentore, non prova repulsione per il Führer del nazismo ma non esiterebbe a uccidere il Duce del fascismo, e soltanto perché questi ha la presenza antipatica di certi boriosi agenti di campagna che sanno di essere i più abili sul mercato del bestiame.
Non esiterebbe se fosse l’uomo delle sue fantasticherie ma, essendo quello che è, il professor Bianchi Bandinelli esita. Esita perché per lui l’antifascismo è una manifestazione spontanea di talune vaghezze morali, un’espressione del suo gusto estetico, una questione di aristocrazia, di nobiltà, di stile, ma niente di più. Esita perché lui è l’antifascista generico. Senza una precisa direttiva politica, senza un programma, senza un destino. Fino a oggi, la sua dissidenza si è limitata a disertare le cerimonie d’inaugurazione dell’anno accademico, a deridere i colleghi che vi tenevano discorsi encomiastici, al sarcasmo e alla sprezzatura. Non è con questo armamentario che si fa la Storia. La Storia la fanno gli altri, i commedianti puerili, i burattini sgraziati, le mani guantate di grigio con i pollici incrociati all’altezza del cinturone.
E, poi, che diamine è questa Storia? Si lascia condurre per mano come un ragazzino, la Storia? Può bastare il clangore di un’esplosione, il sibilo di una coltellata a deviarne il corso? Non dubita il professore che Adolf Hitler e Benito Mussolini, i suoi due allievi d’occasione, precipiteranno presto il mondo in un’altra guerra mondiale, ma si chiede: la loro scomparsa improvvisa e violenta, la eviterebbe? Se la guerra è storicamente necessaria, vale la pena di sacrificarsi solo per rimandarla di qualche mese? E se anche lui si sacrificasse, i popoli che sottrarrebbe al macello, gliene sarebbero grati o troverebbero solo parole di compianto per le sue vittime?
Troppe domande. Hitler e Mussolini, sospinti dal loro codazzo, si sono già mossi verso l’uscita della stazione. Il professore, risucchiato nel centro gravitazionale del loro magnetismo, dimentica di colpo ogni sua tenebrosa macchinazione. Avendo scelto da molto tempo di prendere posto tra gli spettatori anziché tra gli attori, resta in lui soltanto la curiosità di poter veder da vicino. Quella curiosità, e l’orrore della creatura al pensiero della propria distruzione. —
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