la Repubblica, 13 settembre 2022
Anticipazione di “M. Gli ultimi giorni dell’Europa”
Pubblichiamo un brano di “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” nel quale Antonio Scurati prosegue la sua narrazione del fascismo
La folla è monoteista. Nessuno lo sa meglio di lui. Quando un uomo riduce un popolo a una massa di succubi, quelli non potranno che adorare il suo corpo. Adorarlo o massacrarlo.
Lui l’ha imparato a sue spese pochi mesi prima, il 28 settembre del millenovecentotrentasette, quando la sua visita di Stato alla Germania nazista si è conclusa nell’apoteosi berlinese allo stadio olimpico. Un giorno festivo dichiarato a metà settimana, migliaia di bandiere, sessantamila monaci guerrieri delle Ss, centinaia di cani addestrati alla repressione sguinzagliati tra la folla e una massa di oltre mezzo milione di persone, di devoti dilaganti attorno all’anello dell’Olympiastadion come sangue emorragico attorno al cratere di una ferita. Mezzo milione di bocche che scandivano il medesimo slogan al passaggio dei dittatori, in piedi sull’auto decappottabile in testa al corteo, entrambi impassibili sotto la pioggia che aveva cominciato a cadere.
Tutto era stato pensato per onorare l’ospite italiano, il maestro di fascismi. Tutto doveva elevare il Duce degli italiani a pari rango del Führer dei tedeschi. Offrendo l’amico italiano al boato del Campo di Maggio — un muggito tellurico, come eruttato dalla bocca di un vulcano — Hitler era stato categorico: «Proclamo la mia gioia nel presentarvi uno di quegli uomini solitari che non sono semplicemente protagonisti della storia, ma che fanno essi stessi la storia».
Eppure, mentre lui — l’amico italiano — pronunciava il discorso imparato a memoria, mentre il temporale irrompeva e lui rifiutava ogni protezione, mentre la sua voce si spegneva tra i tuoni, mentre quegli istanti fatidici si scolpivano nel tempo con le fattezze di una divinità totemica, non potevano esserci dubbi che l’adorazione della folla fosse dedicata a Adolf Hitler, e che giungesse a lambire il Duce solo di rimbalzo, per riverbero dal corpo numinoso dell’altro.
Lo stesso accade adesso, un anno dopo, mentre la folla dei romani si accalca lungo la via dei Trionfi per salutare, nella berlina di gala trainata da un tiro di superbi cavalli, l’uomo che da settimane la propaganda presenta come il compagno di strada del Duce, scoprendolo invece — amara delusione — in compagnia del piccolo re, impostodal protocollo di Stato. Anche se lui, Benito Mussolini, non c’è, anche se è stato costretto a cedere il posto a quel ridicolo monarca alto quanto un ragazzino del ginnasio, mentre il corteo, lasciatosi alle spalle i blocchi dell’obelisco di Axum — simbolo dell’impero redivivo — sfila accanto al Colosseo incendiato da un fuoco pirotecnico, gli applausi della folla sono comunque tutti per lui, Mussolini Benito, l’assente, figlio di un fabbro e Duce degli italiani.
Tra gli spettatori della storia, Hitler suscita curiosità ma anche diffidenza. Gli italiani del Nord odiano i tedeschi, nemici storici, combattuti al costo di seicentomila morti nella Grande guerra, e i romani si affidano al genio della commedia per inquadrare l’algido ospite. «Cosa sono quei baffetti neri?». È sufficiente l’indizio fisiognomico per rinfocolare in un popolo latino il timore del germanico.
Lui, Mussolini Benito, arcitaliano, tutte queste cose le sa. E mentre, mortificato per l’oltraggio subito dal piccolo re, siede sul letto ansante dopo aver preso con rabbia la sua Clara — le ha perfino morso una spalla — sa anche che tutto questo gli verrà rimproverato. Sache Vittorio Emanuele III diffama Hitler descrivendolo come un caso psichiatrico, depravato sessuale e cocainomane; sa che Italo Balbo, l’unico che osi criticarlo a viso aperto, dà voce a tutti coloro i quali, e sono in tanti, aborrono l’idea di dover «baciare lo stivale di quegli invasati nazisti»; sa che il Vate Gabriele D’Annunzio, morto lo scorso marzo nel suo letto per un’emorragia cerebrale come un pensionato qualsiasi dopo una vita inimitabile spesa a inseguire la bella morte, nei suoi giorni estremi invitava a diffidare dei tedeschi e del loro «pagliaccio feroce», un «Attila imbianchino»; sa che, nella Roma illuminata a festa, l’unica piazza buia è quella di San Pietro, perché il Papa protesta spegnendo la luce divina e serrando le tapparelle contro quell’idolatra che ha inalberato una croce diversa da quella diCristo, croce uncinata.
Il Duce sa, soprattutto, che tra la sua visita in Germania e questa di Hitler in Italia c’è stato l’11 di marzo del millenovecentotrentotto, il giorno in cui il sedicente amico tedesco, senza nemmeno avvisarlo di aver ordinato l’inizio delle operazioni, si è ingoiato l’Austria, spostando al Brennero il confine del Reich millenario. Uno scacco gravissimo, la prima vera sconfitta della politica estera fascista dopo i trionfi in Etiopia e le vittorie in Spagna. Quel giorno il Capo degli italiani, proclamatosi in passato protettore dell’Austria, aveva dovuto inghiottire il boccone amaro mentre il cancelliere austriaco von Schuschnigg veniva percosso e arrestato dagli invasori nazisti e per tutta Vienna gli ebrei erano costretti a pulire le strade con la soda caustica, a mani nude sull’asfalto.
Quel giorno lui stesso, Benito Mussolini da Predappio, era esploso in grida di rabbia contro «quel popolo di assassini e di pederasti che avrebbe segnato la fine della civiltà » se avesse invaso l’Europa come si era annesso l’Austria. E contro il loro Führer, quel pazzo pericoloso.
Lui stesso aveva minacciato, se i tedeschi avessero osato sposta — re di un solo metro il palo di frontiera con l’Italia, di «coalizzare l’intero mondo contro di loro mettendo a terra la Germania per altri due secoli». Poi, però, in pubblico aveva abbozzato, pavido, furbesco e perdente.
E adesso, grazie al suo orecchio assoluto per gli umori del popolo, gli sembra di sentirli i romani: ma non era lui che nel millenovecentotrentaquattro, dopo l’omicidio del cancelliere Dollfuss da parte di alcuni golpisti filonazisti, aveva mobilitato quattro divisioni al confine per proteggere l’Austria? E mo che fa, abbozza? Si ammacchia?
Gli pare di sentirli i bisbigli dei diplomatici mentre von Ribbentrop — il ministro degli esteri di Hitler — blatera di far guerra a destra e a manca, gli sbadigli dei cortigiani e il batter di denti dei fascisti ingrassati, il silenzio maledicente del vicario di Cristo in terra. Li sente, tutti, ma decide di non ascoltarli. Che ne sanno loro delle necessità tattiche della politica, delle sue sordide eppure sublimi astuzie, del brivido sacro della storia? Dicano pure che alle grandiose manovre militari esibite da Hitler nel Meclemburgo lui ha replicato con scenografiche parate sulla via dell’Impero, che l’incendio del Colosseo è fuoco fatuo di bengala, che la follia nazista ci trascinerà nel baratro.
Lui continuerà a giocare su due tavoli, a barcamenarsi tra Hitler e gli inglesi, sfruttando l’alleanza con l’uno per ottenere concessioni dagli altri.
Loro saranno pure banchieri, condottieri e soldati, ma lui è il genio della politica. Al suo confronto, non vi sembrano puerili questi fanatici della guerra?
E, infatti — spiega adesso Benito a Claretta, un poco rincuorato — questo Hitler tanto temuto in fondo quando è con lui è un ragazzone. Sempre un po’ in soggezione, rispettoso, ma poi, quando non è in veste ufficiale, molto simpatico. Lui sa come farlo ridere. Ci riesce sempre.