Corriere della Sera, 13 settembre 2022
Intervista a Carlos Alcaraz, nuovo numero 1 del tennis
Nella suite di un albergo affacciato su Times Square, Carlos Alcaraz potrebbe tirarsela da re del mondo. Invece dietro la tazzona di caffè spuntano gli occhi neri e stanchi del teenager che a New York si è preso il tennis, Us Open e n.1 della classifica, un sorriso dolce, quasi ingenuo, qualche brufolo, mani grandi. Ha dormito pochissimo, senza la coppa («magari dormirò con la replica quando torno a casa»), dopo una cena al ristorante con il clan che è il nido caldo (uno dei tanti paragoni con Nadal) che gli ha permesso di crescere a dismisura durante le due settimane che hanno rivoluzionato lo sport.
Carlos, con quale sensazione si è svegliato dopo aver battuto Ruud in finale?
«Onestamente, quando ho aperto gli occhi, non ci credevo. Continuo a sentirmi una persona normale anche se è tutto incredibile: mai avrei pensato di ottenere così tanto ad appena 19 anni. Prendiamocela con calma, mi aveva detto il mio coach Juan Carlos Ferrero, divertiamoci…».
Si è divertito all’Open Usa?
«Senza sorriso, non riuscirei a giocare. Mi viene spontaneo, sono fatto così. A Montreal, all’inizio di agosto, quando ho perso subito da Tommy Paul per non aver saputo gestire la pressione, il sorriso l’avevo un po’ perso. Mi sono impegnato per recuperare gioia, me la sono portata dietro a New York. Qualche mio collega sembra che in campo sia triste, non si diverta. Non io. Io sono ancora il bambino di Murcia che a dieci anni sognava di diventare professionista».
Davvero non ha mai desiderato fare l’astronauta, il pompiere, il cowboy?
«Mai. Ho chiesto la prima racchetta a Babbo Natale: questa storia è cominciata così. A 14-15 anni, quando già mi allenavo a Villena, all’accademia di Ferrero, non avevo certezza del futuro ma sapevo che avrei dato tutto perché il tennis fosse il mio mestiere».
Che sacrifici le ha richiesto la realizzazione di questo desiderio? Lei non è un teenager banale.
«Ogni tanto mi mancano gli amici, poter fare tardi la sera senza la preoccupazione dell’allenamento del giorno dopo. Ho i gusti e le passioni di qualsiasi ragazzo, mi diverto con poco, uscendo a mangiare o ad ascoltare musica con i miei fratelli o con le persone con cui sono cresciuto. Adoro tutti gli sport: gioco a padel, a golf, a calcio anche se molto meno di un tempo. E tifo Real Madrid».
Alla sua età, in questa esistenza a 300 all’ora, c’è spazio per l’amore?
(arrossisce, sorride) «No, un amore adesso non c’è».
Non ancora?
«Non ancora».
Quando ha capito che avrebbe potuto vincere l’Open degli Stati Uniti?
«Nel quarto di finale con Jannik Sinner. Un incontro durissimo, non so davvero come ho fatto a giocare con quell’intensità. Il match point annullato è stato il giro di boa: credo di essermi spinto dove non ero mai arrivato, Jannik mi motiva e credo di fare lo stesso effetto a lui, è una bella e utile rivalità. Avrei potuto vincere in tre set, lui in quattro, invece siamo andati al quinto. Cinque ore e 20 minuti in campo, non succede spesso!».
Perché lei e Sinner producete sempre scintille?
«Intanto perché ci stimiamo e andiamo d’accordo fuori dal campo. Il suo spagnolo è così così, il mio inglese mediocre, ma ci capiamo al volo. Jannik è sempre amichevole, si interessa: come stai? Come sta la tua famiglia? Come giocatore è sotto gli occhi di tutti: ha già battuto dei top 10, ha una palla pesantissima. Ma è la persona, prima del tennista, ad avermi colpito».
Il re l’ha sentito?
«Non personalmente, forse ha scritto qualcosa sui social…».
No, non re Felipe di Spagna. Rafa Nadal, re della terra.
«Aaaah, sì certo, Rafa mi ha scritto un bel messaggio. Ne ho ricevuti centinaia. Con calma risponderò a tutti».
Con Rafa condivide il dottore, Angel Ruiz Cotorro.
«Cotorro mi dà una mano ma ho anche il mio dottore personale, Juanjo Lopez. A questo livello, è necessario: mi aiuta a tenere sotto controllo il dolore. Ma non è vero che nell’allenamento prima della finale con Ruud zoppicavo, non so chi ha messo in giro questa voce. Certo ero stanco: chi non lo sarebbe stato dopo più di venti ore in campo…?».
Carlos, si offende se dico che lei è innanzitutto un atleta straordinario, e poi un fenomenale tennista?
«No, no, non mi offendo! Sono resistente, elastico, veloce. È necessario, nel tennis moderno».
L’hanno mai cronometrata?
«Sui 60 o sui 100 metri no, però a scuola mi facevano correre i 400…».
E in quanto li copriva?
«In 55 secondi. Ma dovevo correrne una serie, quindi me la prendevo comoda!».
È vero che adesso va a Valencia per il girone di Coppa Davis?
«Verissimo. Lo faccio per me, per la mia squadra, per il mio Paese».
Non starà esagerando?
«Non mi metto limiti. So che sono nuovo al vertice ed è appena finito un Open Usa surreale. Ma ho grandi sogni: non intendo sprecarli».