il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2022
Il porto di Alessandropoli
In questa calda giornata di fine agosto, l’afa opprime i turisti turchi e bulgari che si affrettano per visitare lo storico faro del porto di Alessandropoli, punto di riferimento della città greca. Alcuni gettano appena uno sguardo distratto al Liberty Pride, l’imponente nave da carico statunitense ammarata al porto. A bordo, ci informa l’esercito americano, si trovano circa 300 “attrezzature militari” destinate ai Paesi dell’Alleanza Atlantica: “Gli abitanti di Alessandropoli sanno che gli americani sono presenti in città, ma anche che non devono fare troppe domande – osserva Giorgos Mavrommatis, docente universitario, seduto al tavolo di un ristorante -. Qui tutti hanno in famiglia un parente legato all’esercito greco”.
Il segreto militare è una tradizione locale. Alessandropoli, 70 mila abitanti, è un hub militare a una ventina di chilometri dalla Turchia, dove, dal luglio 2020, arriva una gran quantità di materiale militare statunitense, destinato alle basi Nato in Europa. Blindati, elicotteri, materiali di artiglieria o da costruzione vengono discretamente smistati in questo porto modesto. “Siamo fieri di essere diventati uno degli hub militari più importanti d’Europa”, osserva orgoglioso Constantinos Hatzimichail, presidente del consiglio di amministrazione del porto, che ha messo in bella mostra nel suo ufficio diverse bandierine della Nato. Il porto, costruito sotto l’occupazione ottomana (tra il XV e il XIX secolo), collega il mar Egeo ai Balcani. La sua attività, piuttosto modesta negli ultimi decenni, è “rinata negli ultimi anni grazie alle operazioni americane”, continua Hatzimichail. Con la guerra in Ucraina ha acquisito poi una certa importanza geostrategica: “Alessandropoli è sulla rotta ideale tra Oriente e Occidente”, aggiunge. Dal porto le merci raggiungono via terra la Bulgaria, la Romania e l’Ucraina, senza passare per il Mar Nero, dove sono presenti le navi militari russe, mentre il passaggio attraverso lo stretto dei Dardanelli è controllato dalla Turchia. Sette delle ventuno missioni di smistamento di armamenti e attrezzature militari portate avanti dagli Usa dal luglio 2020 “sono state effettuate negli ultimi sei mesi”, riferisce André Cameron, statunitense, direttore delle operazioni portuali: “Ogni operazione coinvolge dai 50 ai 200 soldati americani che si fermano in città per alcune settimane. Durante l’estate, sono passate per il porto di Alessandropoli 2.400 armi e attrezzature militari – spiega Cameron –, il numero di armi Usa più alto mai transitate in un solo porto”. Il 22 agosto una nave italiana ha scaricato blindati sulla banchina. Di recente, oltre agli Stati Uniti, anche altri Paesi alleati della Nato, tra cui il Regno Unito e dunque l’Italia, “effettuano trasferimenti di attrezzature militari nel porto di Alessandropoli”. Ma il direttore resta vago. Ha istruzioni ben precise: non può menzionare né il tipo di armi smistate né la loro destinazione. La presenza Usa nel porto si è fatta più visibile in primavera. A maggio si è parlato molto dello spettacolare sbarco di circa mille marines della nave Uss Arlington. Nikos Dendias, ministro greco degli Esteri, ha definito Alessandropoli un “porto chiave” per gli Stati Uniti in Grecia. Il 18 giugno, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd J. Austin, ha dichiarato che Alessandropoli ha permesso “di continuare a fornire assistenza militare all’Ucraina”. Ma, secondo Cameron, nessuna delle armi Usa sbarcate nel porto greco viene inviata direttamente in Ucraina.
La questione è delicata. Anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina, Dmitry Peskov, portavoce del presidente Putin, a dicembre, parlando ad un tv greca, esprimeva i suoi timori rispetto all’intensificarsi delle attività nel porto greco: “Sempre più truppe della Nato e degli Stati Uniti si stanno concentrando sul vostro territorio – aveva detto Peskov -. Centinaia, migliaia di equipaggiamenti militari transitano a Alessandropoli. Potete capire che questa cosa ci preoccupa”. Se le missioni Usa preoccupano Mosca è anche perché rientrano nell’operazione Atlantic Resolve. Lanciata nel 2014, in risposta all’annessione russa della Crimea, la missione punta a rafforzare la presenza aerea, terrestre e navale Usa e ad intensificarne le esercitazioni lungo la fascia orientale della Nato. Le rotazioni delle truppe vengono effettuate all’incirca ogni nove mesi nella regione. A Alessandropoli, diventata una tappa cruciale, i trasferimenti di equipaggiamenti e personale militare sono potuti iniziare solo nel 2020, nell’attesa che venisse ritirata una draga arenata da anni nel porto, impedendo alle navi più grandi di attraccare. Da allora la collaborazione militare tra Atene e Washington si è intensificata. A fine 2021, il partito di centro-destra al potere in Grecia, Nuova Democrazia, ha emendato un accordo di cooperazione in materia di difesa comune (Mdca) con gli Stati Uniti (rinnovato quasi ogni anno dal 1990) che favorisce l’accesso Usa alle basi militari in Grecia. Se Grecia e Stati Uniti hanno intensificato la loro collaborazione è anche a causa della Turchia, Paese membro della Nato. Per Atene, Washington è un alleato forte per difendersi dalle rivendicazioni territoriali di Ankara. A loro volta, gli Stati Uniti hanno dovuto riconsiderare le loro alleanze nella regione a causa del deterioramento dei rapporti con la Turchia negli ultimi dieci anni. Tra le altre cose, Washington accusa Ankara di aver acquisito di recente dei sistemi di difesa aerea russi S-400. Da parte sua, la Turchia critica gli Stati Uniti per il sostegno accordato ai curdi in Siria nella lotta contro lo Stato Islamico. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha criticato anche l’intensificarsi delle manovre Usa in Grecia: “Contro chi servono le basi americane? Le autorità greche e americane assicurano che servono contro la Russia. Non ci crediamo” ha avvertito Erdogan lo scorso 8 giugno. Per decenni l’opinione pubblica greca si è mostrata essenzialmente anti americana, soprattutto a causa dell’ingerenza degli Stati Uniti nella politica greca alla fine della seconda guerra mondiale. “Ora invece, l’attuale primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, parla della Grecia come dell’avamposto degli Stati Uniti nell’Europa orientale – osserva Giorgos Katrougalos, deputato dell’opposizione di sinistra Syriza ed ex ministro degli Esteri -. La Nato è uno strumento di difesa, ma non dovrebbe essere il solo. L’Unione europea non deve diventare un accessorio della Nato o della politica estera americana”. In un hangar trasformato in ufficio, Konstantinos G. Chatzikonstantinou, amministratore delegato del porto di Alessandropoli, nominato dal governo greco, ha progetti ambiziosi: “Business is business – ripete -. Gli americani sono uno dei nostri principali clienti, pagano per le loro operazioni, ma questo non impegna militarmente le autorità portuali. Gli smistamenti militari rappresentano una minima parte degli affari che facciamo con loro”. Chatzikonstantinou preferisce parlare del futuro commerciale del porto, che potrà diventare un hub privilegiato per il trasporto dei cereali quando la rete ferroviaria locale sarà collegata alle reti transeuropee dei trasporti. Un altro progetto molto atteso dagli abitanti di Alessandropoli riguarda l’installazione del nuovo terminal di gas naturale liquefatto (Gnl), un’infrastruttura galleggiante che dovrebbe essere realizzata entro la fine del 2023. Mentre si temono penurie di gas a causa alla guerra in Ucraina e delle sanzioni Ue contro la Russia, il futuro terminal garantirà la sicurezza energetica della regione. Gli Stati Uniti sono il principale esportatore di Gnl, un gas la cui impronta carbonica è disastrosa. Un’incognita pesa tuttavia sulle ambizioni di Chatzikonstantinou: il progetto di privatizzazione al 67% del porto di Alessandropoli, iniziato tempo fa, per un periodo di quarant’anni. Dei quattro consorzi preselezionati, due includono aziende statunitensi e due coinvolgono società con forti legami con la Russia. “Conosceremo il nome del rilevatario entro fine anno”, osserva laconico l’ad del porto.
(Traduzione di Luana De Micco)