Il Messaggero, 12 settembre 2022
In Giappone la religione fa politica
Che rapporto hanno i giapponesi con la religione? Stando alle statistiche ufficiali, un po’ confuso, superficiale e strumentale. A fronte di una popolazione di circa 120 milioni di persone, 82 milioni si dichiarano shintoisti (la religione animista indigena), 50 milioni buddhisti, circa un milione cristiani e 4 milioni seguaci di altre religioni. I numeri non tornano. Soprattutto se ad essi affianchiamo quelli di un altro recente sondaggio, pubblicato dal Nikkei, secondo il quale il 68% degli intervistati dichiara di non seguire alcun movimento religioso, mentre il restante 30% circa dichiara di essere buddhista (12%), cristiano (2,2%), o shintoista (appena l’1,5%). Ciò non impedisce a templi e santuari di essere letteralmente invasi in particolari occasioni (Capodanno, O-Bon, Shichi-Go-San, una festa dedicata ai bambini) e di raccogliere soldi a palate in occasione di matrimoni, funerali e tutte le varie forme di benedizione (inaugurazione di case, attività commerciali, viaggi) che di volta in volta ricevono.
È molto diffusa, in Giappone, l’opinione che si nasca shintoisti, ci si sposi da cristiani e si muoia buddhisti: il tutto perché, per ciascuna di queste occasioni, i giapponesi sceglierebbero il rito più bello e attraente, ma anche più conveniente. Un popolo di atei, opportunisti e superstiziosi? L’unico popolo al mondo che anziché farsi strumentalizzare dalla religione, l’ha di fatto sottomessa alle proprie esigenze? Il compianto padre Giuseppe Pittau, gesuita e per molti anni rettore della prestigiosa Sophia University di Tokyo ne era convinto: «Nei giapponesi c’è un alto senso della spiritualità, ma anche tanta diffidenza nei confronti delle religioni costituite, quelle che impongono di seguire un certo percorso, credere in certi principi, e che prevedono condanne e ricompense». Ricordo, durante una delle nostre numerose chiacchierate, che con grande saggezza e onestà di pensiero un giorno mi spiegò perché, nonostante le ottime premesse (il cristianesimo, quando arrivò in Giappone con i primi missionari francescani, domenicani e gesuiti, nel XVI secolo, ebbe un immediato e diffuso successo, prima di essere duramente represso dallo shogun Tokugawa, un secolo dopo) il cristianesimo, anche oggi che la libertà di culto è costituzionalmente garantita, non ha mai sfondato in Giappone: «I giapponesi sono un popolo sostanzialmente laico, amano le tradizioni, le liturgie, le occasioni per far festa: ma non sopportano i dogmi. Impossibile, per noi cristiani, imporre concetti come il peccato originale, la verginità di Maria, la santissima Trinità. E soprattutto l’idea dell’inferno, l’eterna dannazione».
Ciò non toglie e il dato è diventato oggetto di pubblico dibattito dopo l’assassinio dell’ex premier Shinzo Abe, lo scorso luglio, da parte di un giovane che lo riteneva sostenitore di una setta religiosa (la Chiesa per l’Unificazione fondata dal reverendo coreano Moon Sun Myung, presente anche in Italia), a sua volta responsabile dell’’indebitamento della madre che il Giappone sia un vero e proprio paradiso per le religioni o presunte tali. Secondo l’Agenzia per gli Affari Culturali, attualmente vi sono oltre 180 mila associazioni religiose ufficialmente registrate. Alcune dichiarano milioni di aderenti, altre poche centinaia, alcune sono aziende familiari: poche persone, più o meno legate da vincoli familiari, che si inventano un culto e grazie ad una legge particolarmente permissiva (approvata nell’immediato dopoguerra, per garantire l’assoluta libertà di culto ed evitare il rischio di tornare ai tempi dello shintoismo religione di Stato) possono svolgere liberamente – e senza particolari controlli – non solo attività di proselitismo ed evangelizzazione, ma anche e soprattutto raccolta di fondi. Esentasse. Fondi che spesso e volentieri vengono poi utilizzati per finanziare, direttamente o indirettamente, l’attività politica. Hiroshi Yamauchi, avvocato, ha fondato anni fa l’associazione vittime delle vendite spirituali: difende le migliaia di persone che ogni anno vengono convinte/costrette ad acquistare ogni sorta di oggetti, o effettuare versamenti.
È il tema più dibattuto in questi giorni in Giappone, soprattutto da quando su sollecitazione del governo i politici hanno dovuto dichiarare eventuali contributi ottenuti dalla Chiesa Unificata (ma non da altre). Nonostante solo due parlamentari, uno del partito al governo, l’altro dell’opposizione abbiano ufficialmente ammesso di aver ricevuto un peraltro ridicolo – finanziamento (attorno ai 300 euro) sono ben 176 invece i deputati che dichiarano di aver avuto qualche forma di legame con la setta. Il più comune è quello di procacciare voti. In Italia lo chiameremmo voto di scambio, ma in Giappone questa figura di reato elettorale nonostante una legge particolarmente severa – non è prevista. Per cui gli aderenti ad una setta, dalla Chiesa di Unificazione alla Soka Gakkai, l’associazione laica buddhista che da anni garantisce milioni di voti al suo braccio politico, il partito Komei (al governo) possono liberamente fornire i loro servizi (il più comune dei quali è la fornitura di personale volontario – ma spesso in realtà pagato – in occasione delle campagne elettorali) senza violare formalmente la legge. E se è vero quanto riportano i media locali, che la Chiesa Unificata da sola abbia rastrellato oltre 3 miliardi di dollari (di cui circa la metà vengono inviati alla sede centrale, in Corea del Sud) possiamo ben immaginare quale sia l’importanza del loro aiutino in occasione delle elezioni. Inoue Yoshiyuki, ex segretario particolare dell’attuale premier Kishida, ne sa qualcosa: da 80 mila preferenze è passato a 165 mila, da quando frequenta la potente setta. Con la benedizione dello stesso Kishida. «Il principio di separazione tra Stato e religione ha dichiarato il premier lo scorso 15 agosto non vieta alle organizzazioni religiose di svolgere attività politica. È piuttosto un limite imposto allo Stato, affinché non interferisca in alcun modo limitando la libertà di culto». E di mazzetta, aggiungerei.