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 2022  settembre 11 Domenica calendario

Intervista a Marco Biffi - su "Giusto, sbagliato, dipende" dell’Accademia della Crusca (Mondadori)

Per tutti c’è una prima volta, anche per l’Accademia della Crusca. Che, nata nel 1583, a metà settembre pubblica il suo primo libro per il grande pubblico: Giusto, sbagliato, dipende (Mondadori). Un pamphlet con un approccio alfabetico che raccoglie la quintessenza dell’insegnamento dell’autorevole e prestigiosa istituzione, organizzando in forma sistematica i quesiti arrivati alla sua attenzione. «Ci è sembrata un’ulteriore occasione per farci conoscere dagli italiani e per dialogare con loro, per mettere a disposizione di tutti una serie di conoscenze utili», spiega nella prefazione il presidente Claudio Marazzini. Il volume, scritto in forma collegiale, è stato curato dall’accademico Paolo D’Achille, responsabile della Consulenza linguistica e dall’accademico corrispondente Marco Biffi, che coordina la struttura informatica e la comunicazione attraverso il web e i social. Tra Facebook, Twitter e Instagram la Crusca ha più di 650 mila follower. A Panorama Biffi racconta come in questi anni sia diventato un vero fenomeno social: «Riceviamo tante domande, almeno una trentina al giorno. Forniamo questo lavoro di consulenza linguistica dal 1990, prima con una rivista, poi con il sito dal 2002. E ora anche con i social, attivi dal 2012».

Quali sono i quesiti frequenti?

Le domande sono le più svariate e dalle più svariate persone. Scuole, specialisti, amanti della lingua e semplici curiosi. Chiedono come si scrivono le parole o come si pronunciano quelle straniere, per esempio Ucràina/Ucraìna. Poi la morfologia, le reggenze dei verbi, cui abbiamo dedicato un capitolo, problemi di incertezza grafica, come «qual è». Generalmente sono dubbi legati alle trasformazioni più o meno recenti dell’italiano.

Quali sono stati i cambiamenti rilevanti degli ultimi anni?

Per esempio quelli fonetici. La differenza tra la e semi aperta e semi chiusa, ossia pèsca (frutto) e pésca (l’attività di pescare), si sta perdendo. Soltanto in Toscana la si sente naturalmente. Per esempio nel siciliano esiste solo la e aperta.

Poi c’è il famoso tormentone del congiuntivo in via d’estizione… È davvero così?

Per gli italiani forse, meno per i toscani perché per loro è naturale. Vittorio Alfieri scrisse: «Deh, che non è tutto Toscana il mondo!». Ci sono zone grammaticali che vengono naturali solo ai toscani. Ma per ragioni storiche, non perché sono più bravi degli altri. L’italiano deriva dal fiorentino.

Tornando al congiuntivo, perché usarlo è sempre così arduo?

È andato incontro a una serie di semplificazioni. Esprime il concetto della potenzialità. Se lo uso la cosa che sto descrivendo non è certa. Potrebbe avvenire come non avvenire. Ma se questa potenzialità è evidente, molti, anche colti, in contesti meno formali usano l’indicativo, anche se a rigore è sbagliato.

A Siena pensano ancora che le radici del nostro idioma abbiano origine lì?

Ci sono prove storiche, linguistiche e strutturali che dimostrano come l’italiano sia di base fiorentina. E ci ha messo lo zampino anche l’Accademia della Crusca. Nel Cinquecento, dopo una discussione su quale doveva essere il volgare da indicare come lingua nazionale, propose di seguire come modello il fiorentino trecentesco. E fornì lo strumento per diffonderlo: il vocabolario degli Accademici della Crusca. La prima edizione fu del 1612. Ha funzionato come riferimento per lo scritto per oltre due secoli.

Per il parlato invece?

Di fatto un italiano usato da tutti, a prescindere dalla classe sociale e dalla provenienza geografica, esiste solo dalla fine degli anni Settanta, grazie anche al contributo di radio prima e televisione poi.

Solo da 50 anni, cosa c’era prima?

Il dialetto. Allora era un «marcatore» sociale. C’era una parte della popolazione, minoritaria, che conosceva sia il dialetto che l’italiano. E una parte invece che non lo sapeva o lo conosceva in maniera maldestra. Al massimo usava un italiano popolare, connotato in senso dialettale. Oggi il dialetto ha lentamente recuperato spazio, si affianca alla lingua nazionale in alcuni ambiti e sfere. Spesso entra in gioco nella parte della comunicazione che riguarda l’intimità, i rapporti personali oppure con il territorio.

Quali parole dialettali sono ormai entrate nel nostro vocabolario?

Moltissime: da friccicore a iella, da magnaccia a maritozzo. Oppure bauscia, italiano dal 1954, cumenda, fuffa. Anche la napoletana cazzimma.

Oggi l’italiano pare sempre più imbastardito, infarcito di parole straniere, slang, abbreviazioni.

È un’affermazione pesante, anche se c’è un fondo di verità. Sta subendo una forte pressione da parte dell’inglese, che è visto come una lingua di prestigio e utilizzato spesso a vanvera, solo per darsi un tono. Paradossalmente usare l’inglese diventa indice di cultura alta, segno di appartenenza all’ambiente giusto. Ormai vision, spoilerare, location, taggare, know-how, sono di uso quotidiano. La cosa più grave è quello che succede a livello istituzionale, dove c’è un abuso di parole straniere, anche se non ce ne sarebbe bisogno.

Ovvero?

L’ultimo caso clamoroso è stato «booster». C’era una parola comprensibile a tutti che è: richiamo. Si dice che tecnicamente non è proprio la stessa cosa, ma per chi lo deve fare è assolutamente la stessa cosa. Oppure «droplet» al posto di gocciolina. Non ci dimentichiamo che siamo un Paese dove, secondo i dati Istat del 2020, la popolazione sopra i 15 anni per il 50 per cento ha al massimo la licenza media. Ma il 16 per cento si ferma alle elementari o addirittura non ha nessuno tipo di titolo di studio. In queste condizioni si trova soprattutto chi è sopra i 70. Nella fase iniziale della pandemia sicuramente gli anziani erano i più interessati a capire come avvenisse il contagio, ma molti di loro non comprendono l’inglese.

Non le pare che la nostra sia una lingua fluida in anticipo sui tempi?

L’italiano usa il maschile anche con valore non marcato. Quando lo si usa con questo valore non è un maschile, è un tutto. È buffo, se fosse un femminile non marcato magari susciterebbe meno problemi.

Come si è posta l’Accademia verso l’utilizzo dello «schwa»?

Ha espresso il suo dissenso. La Crusca è per il maschile non marcato. Soprattutto nelle questioni legate al plurale, che sono quelle che hanno fatto entrare in crisi il sistema della rigida distinzione fra maschile e femminile. Le altre alternative, come gli asterischi, sono antieconomiche, oscure, non funzionali.

Potrà diventare un problema?

Direi che fa emergere un problema che evidentemente c’è. Ma è nell’affidare la soluzione alla lingua, l’errore. Tutti non fanno altro che dire che le parole sono importanti. Tanto che hanno svilito il concetto fino a farlo diventare banale. Certo che le parole sono importanti, ma non si può lasciare alla lingua la soluzione del problema. Il punto è creare le condizioni culturali per cui la discriminazione non ci sia nei fatti. E non si ottiene forzando l’uso dello schwa, ma agendo su valori culturali e lasciando in pace la lingua, che come ha sempre fatto si adeguerà alla società secondo i suoi naturali meccanismi.

Eppure il dibattito è feroce.

La lingua per essere inclusiva deve tenere conto di tutti. In caso contrario rischiamo di tirarla da una parte e dall’altra e così per includere alcune persone, rischiamo di escluderne molte altre. Ricordiamoci che siamo un Paese dove la metà delle persone non è nemmeno tanto sicura della struttura grammaticale così come è. Se si va a complicare loro la vita, si perdono per strada.

Nel futuro useremo l’italiano inclusivo?

A mio parere non con lo schwa o con strategie di questo tipo. Perché sono anti economiche e la lingua funziona anche in base a principi di economicità.

Un capitolo del libro è dedicato al «burocratese» e alle parole orrende che ha generato, come «colloquiare» o «attenzionare». Che cosa ne pensa?

Da linguista non definirei mai una parola «orrenda». È vero però che attraverso la lingua burocratica sono entrati termini di cui si potrebbe fare a meno e che non contribuiscono alla chiarezza, tutt’altro.

L’italiano viene considerato universalmente la lingua più bella del mondo. Perché?

Affascina per la sua continuità nel tempo. Per certi versi ha avuto una storia travagliata: è diventata la lingua nazionale soltanto da 50 anni. Però oggi chiunque può leggere Dante e Boccaccio, alcuni magari con qualche aiuto. Questa è una prerogativa solo dell’italiano. Le parole stesse hanno una storia millenaria. È una cosa molto bella: più le si conoscono, più si arriva a capire cosa contengono nei loro vari strati storici. Come in uno scavo archeologico.