Corriere della Sera, 11 settembre 2022
Parla Giovanni Storti
«Ho paura che tanti personaggi ideati negli anni passati oggi non siano più proponibili. Oggi ci sono i paladini di tutto, in guerra contro tutti, che non capiscono che raccontare anche in modo buffo realtà faticose e importanti di sofferenza non fa che bene. Un personaggio come il Professor Alzheimer (incompetente e negligente, affetto da improvvisi vuoti di memoria) verrebbe subito attaccato, bollato come inopportuno». Parola di Giovanni (Storti), un terzo del trio con Aldo e Giacomo. «Già in passato ce la menavano un sacco sugli animali, perché facevamo finta di schiacciarli, di trattarli male. Anche Il circo di Paolo Rossi adesso non andrebbe bene: io interpretavo un imbonitore, Giacomo era sdraiato su un carrellino, come quelli che si vedono ancora in India, era senza mani e gambe e io lo frustavo. Pensare che durante le prove due persone in carrozzina ridevano come matti; adesso sarebbe impensabile. Come quando Aldo faceva il cieco che riprendeva la vista. Era tutto una finta, ma oggi viene tutto preso molto sul serio».
Giovanni è protagonista oggi della giornata di chiusura di Fuoricinema (la festa-festival che si affaccia sul parco della Biblioteca degli Alberi a Milano) dove parlerà anche del suo amore per l’ecologia. Come attore è uno e trino. Perché al cinema alterna anche i ruoli in solitaria, senza i consueti compagni. È successo in Boys, in Tutti a bordo, nell’ultimo Le voci sole. Ha voglia di scampoli di assenza? «Mi piace collaborare con altri registi e attori, per far scattare qualcosa di interessante e positivo, per vedere come è diverso il mondo rispetto al trio. Con il trio sai che giochi in casa, ci sono quella conoscenza e quel feeling spettacolari che il pubblico riconosce a pelle».
In Le voci sole (i temi attuali della delocalizzazione del lavoro e quello dei social) ha un ruolo drammatico: «Anche nelle parti intense cerco di mettere qualcosa di comico, mi piace questa cifra; del resto in fondo mi sento una persona drammatica, seria, anche perché è faticoso dover essere sempre comici...».
Tra i tanti spettacoli in trio cosa vi rappresenta di più? «Il teatro più di cinema e tv, per il suo meccanismo immediato con il pubblico, quindi I corti, Tel chi el telùn: sono i progetti che mi hanno esaltato di più. Il cinema è diverso, alla fine sei quasi condizionato dal successo che ha decretato il pubblico. La tv invece è stata il palco delle grandi follie. A Mai dire gol dovevamo lavorare in pochi minuti, eravamo costretti a inventare cose esaltanti. Lì abbiamo vissuto i momenti più euforici e folli, divertenti».
Eppure all’inzio personaggi come I Bulgari e Tafazzi furono bocciati: «Sembra incredibile. Ci dissero che i Bulgari facevano schifo, che erano da oratorio... Tafazzi invece era stato bollato come una scemata, salvo poi diventare di culto – anche con un po’ di fortuna – come emblema della sinistra che si autoflagella. La fortuna fu approdare a Mai dire gol dove c’era una libertà espressiva e soprattutto una sintonia di comicità unica con le persone che decidono, che sono quelle fondamentali per la riuscita di un progetto».
Le crisi? «Ogni periodo ha i suoi problemi, a volte non riesci a stare bene assieme, il giorno dopo sì; ci sono i momenti in cui sei creativo, altri meno. È normale...». Tantissimi successi, qualche raro colpo a vuoto: «Penso al Festival di Sanremo 2016, non ci credevamo molto noi per primi e lo abbiamo affrontato in modo strano; ci è dispiaciuto sia andata così. Come Reuma Park, doveva essere la celebrazione dei nostri 25 anni invece era stato presentato come un film vero, nuovo. Un successo mancato che ci ha fatto soffrire». Le decisioni a maggioranza, ma non solo: «Il meccanismo è doppio: o si decide a maggioranza o uno è così bravo da convincere gli altri a farsi seguire. C’è anche il proverbio: chi fa da sé fa per tre. Ecco, non è il nostro caso, per noi è il contrario».