La Stampa, 11 settembre 2022
Al femminile e al maschile, la Treccani s’adatta
Sosteneva Saussure, padre della linguistica novecentesca, che per capire a fondo come funziona una lingua dobbiamo saper distinguere l’uso – individuale e collettivo – dei parlanti, dal sistema, che lui chiamava langue. Quest’ultima è un’astrazione, c’è ma non si vede, come non si vedono molte altre cose che regolano la nostra esistenza, a cominciare da meridiani e paralleli.
Le parole ci sono ben presenti, invece, nella loro concretezza: dette o scritte, alte o basse, corrette o scorrette. La lingua ci appare, ed è fatta di questi atti, dal buongiorno alla Divina Commedia: la descrizione della sua struttura, del sistema, è il punto d’arrivo, la ragione della fatica del linguista, che ha ben presente il tasso di idealizzazione di qualunque istantanea se ne faccia. Per quanto necessaria alla sua descrizione, la fotografia di uno stato di lingua è sempre irreale, dato il carattere di sviluppo continuo a cui è sottoposto ogni idioma. Il dizionario, che rappresenta il tentativo di dar conto del lessico di una lingua, è una parte essenziale di questa fotografia, il fermo immagine indispensabile per comprendere a che punto siamo: cosa cambia, cosa entra e cosa esce, e soprattutto come si aggiornano gli stessi criteri di descrizione e selezione.
Le scelte operate dal Dizionario della lingua italiana Treccani per questa edizione 2022 rappresentano, da questo punto di vista, una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta verranno lemmatizzate anche le forme femminili di nomi e aggettivi – non solo “amico”, ma “amica”, non solo “buono” ma “buona” – e sarà restituita piena autonomia lessicale a nomi identificativi di professione presenti cancellati dalla tradizione androcentrica come “notaia” o “soldata”.
Dovrebbe essere superfluo sottolineare come non si tratti solo di parole, come queste scelte non investano solo la lessicografia, ma la cultura, il sapere e la politica.
E se è comprensibile leggere nelle righe introduttive del Dizionario che il criterio al quale si sono ispirati gli autori – i bravissimi Patota e Della Valle – è l’inclusione, forse non è nemmeno questa la parola giusta. Non si tratta di allargare, ma di dar conto delle trasformazioni avvenute o, se si preferisce, di smettere di tacerle, far cadere divieti non scritti ma profondamente radicati.
Le donne non sono una categoria oppressa, ma più di metà della popolazione; da tempo esistono notaie, soldate, avvocate e sindache, dovrebbe essere naturale dar conto della loro presenza come la si è data di maestre e infermiere, dato che la lingua – il sistema – lo consente. Chiediamoci, piuttosto, perché non è avvenuto, perché le resistenze a rappresentare linguisticamente il cambiamento, ossia la presenza delle donne nella vita pubblica, siano state così tenaci. E forse possiamo risponderci che sì, qui è precipitata tutta l’ostilità a un processo tanto irreversibile quanto temuto, come l’ultimo voto contro l’uso del femminile istituzionale in Senato ha mostrato. Ma è un’ostilità che pesa, perché, come scrive la linguista Cecilia Robustelli «ciò che non si dice non esiste»: se la lingua nega e cancella i fatti si è costrette ogni volta a ricominciare. Con la saggia scelta di Treccani mettiamo finalmente un punto fermo: consentiamo alla lingua di riaccostarsi al mondo e alla forbice di chiudersi. Speriamo sia il primo passo, c’è tanto da fare.