la Repubblica, 11 settembre 2022
Guadagnare poco e non parlarne mai
Che i giovani italiani siano sottopagati, i loro stipendi i più bassi d’Europa, e gli stipendi italiani in generale gli unici, nei Paesi industrializzati, a essere diminuiti dal 1990 a oggi (in Francia e in Germania, nello stesso periodo, sono aumentati di più di un terzo), non è una novità: è sicuramente il macro-dato senza il quale nessuna percezione del presente, della vita sociale, della vita quotidiana, dello stato d’animo del nostro Paese, è possibile. La sola domanda che dobbiamo farci, dunque, è come mai questo macrodato non sia stato costantemente, drammaticamente al centro del discorso politico e mediatico, se non per sporadiche “emergenze” (le turbolenze nella logistica, lo sfruttamento arcaico dei braccianti, la ribellione de riders, eccetera) o per provvedimenti, come il Jobs Act o il reddito di cittadinanza, comunque evasivi rispetto al grande tema dei salari miserabili. Le grandi divisioni politiche del Novecento vertevano, tutte o quasi, sul conflitto sociale e sulla questione salariale. Gli effetti collaterali negativi di quella che si chiamò “lotta di classe” (l’asprezza ideologica, la violenza politica) non impedirono il netto miglioramento delle condizioni di lavoro, a partire dal potere d’acquisto dei ceti popolari. Di qui alla quasi rimozione della questione il passo è stato indietro, non avanti. In questi ultimi anni abbiamo parlato molto degli influencer, poco dei riders, molto del metaverso, poco del muletto e della fresa. Molto, anzi moltissimo, di amori ed emozioni, di sentimenti e di psicologie, poco della vita materiale che li genera. Ma la vita materiale ha il difetto, e il pregio, di richiamarci brutalmente ai fondamentali.