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 2022  settembre 11 Domenica calendario

Intervista a Sasha Marianna Salzmann - su "Nell’uomo tutto deve essere bello" (Marsilio)

«Noi della generazione post-sovietica non siamo abituati a fare domande, a chiedere ai nostri genitori di raccontare. Ma il non sapere produce sofferenza, il silenzio può diventare malattia». La scrittrice, saggista e drammaturga Sasha Marianna Salzmann — finalista allo Strega Europeo e al Deutscher Buchpreis, il più prestigioso premio letterario tedesco, con il romanzo Fuori di sé (2017; Marsilio, 2019) — è nata nel 1985 a Volgograd, già Stalingrado, in Russia, quando c’era ancora l’Urss. Il ramo materno della sua famiglia ebraica viene dall’Ucraina. Sua madre ha vissuto parte della vita a Odessa. Quando Salzmann era ancora bambina, i genitori migrarono in Germania.

Nel 2021 l’autrice ha pubblicato un nuovo romanzo, Nell’uomo tutto deve essere bello, che da noi esce tradotto dal tedesco sempre da Marsilio, e del quale Salzmann parlerà a Pordenonelegge. Il libro si muove avanti e indietro tra gli anni Settanta e il 2017, quando Volodymyr Zelensky, evocato tra le pagine, era ancora l’attore «di una serie dove un umile insegnante di Kiev, per la sua onestà, la sua perseveranza e altruismo, viene eletto presidente dell’Ucraina». Sullo sfondo del romanzo ci sono Brežnev, Gorbaciov, Eltsin, Putin, la Crimea e il Donbass, ma tutto è filtrato attraverso la storia coinvolgente di due generazioni di donne. E una scrittura che ha un suo punto di forza e originalità nelle descrizioni, nelle atmosfere: non di rado gli oggetti sembrano quasi animarsi, farsi espressione del disagio dei personaggi, delle loro allucinazioni («gli autobus sputarono ai piedi di una collina il loro carico masticato»; «la pelle delle mani aveva lo stesso colore della tovaglia, che a sua volta era come la sua camicia: bianca, bianca come le ossa, bianca come la farina, bianca come le nuvole, bianca come se sotto non ci fosse niente, niente arterie, niente vene in cui scorre il sangue, niente muscoli, niente carne»).

Protagoniste sono Lena e Tatjana, arrivate in Germania dall’Ucraina, e le rispettive figlie Edi e Nina che, spiega l’autrice, «pongo nella disperata necessità di affrontare ciò che è successo prima di loro». Madri e figlie che non si parlano quasi più, ma legate come fossero «un’ombra proiettata dall’altra», incastrate «come una matrioska: dalle lacrime di una nascevano quelle della successiva». Salzmann parla a «la Lettura» da Berlino, «non troppo lontana da dove sorgeva il Muro».

Il suo romanzo è precedente all’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio. Come nasce?

«Mentre lo scrivevo mi dicevano: “Perché l’Ucraina?”. Ora mi considerano preveggente. Ma l’attuale guerra è iniziata nel 2014 e io mi sono solo domandata cosa significasse per gli ucraini che vivevano altrove. Inoltre, ascoltando qui in Germania gli amici di mia madre che vengono dall’ex Urss, sia russi sia ucraini, mi rendevo conto che non capivo tante cose, e che noi figli non le chiediamo. Discutere è più tipico dell’Europa occidentale. In particolare tra i tedeschi l’interrogativo “Che cosa hanno fatto i tuoi nonni o genitori?” è immenso. Qui ho imparato a porre domande. Così, alla luce di tutto questo, mi sono seduta con le amiche ucraine di mia madre, e ho chiesto. Da loro nascono le mie protagoniste».

Il romanzo s’ispira anche a lei e alla sua famiglia?

«La mia identità è complessa. Nel mio certificato di nascita c’è una distinzione tra Stato di appartenenza, la Russia, e nazionalità, ebraica. Ciò fa in parte già capire come funzionava la mente sovietica: la religione era vietata e l’essere ebrea mi rendeva parte di una minoranza etnica. Mia madre ha passato parte della vita a Odessa, ma non ci si interrogava molto sull’essere russi o ucraini. In questa fase spesso cercano di incasellarmi, di chiedermi se sono russa o ucraina, ma non funziona molto per un ebreo dell’ex Urss. Inoltre, anche una volta in Germania, attorno a quel tavolo di mia madre gli amici ex sovietici non sentivano tanto l’appartenenza a un Paese, a dei confini. Tutto è cambiato nel 2014: se una nazione è attaccata, ciò che dici e pensi muta in fretta».

Perché i suoi genitori lasciarono la Russia?

«Ce ne siamo andati nei primi anni Novanta, nonostante in Germania le case dei richiedenti asilo venissero bruciate. Il motivo era l’antisemitismo. Apparivano le svastiche sulle abitazioni, mio padre perse più volte il lavoro. Poi, nel passaggio da Gorbaciov a Eltsin, mia madre temeva che ci sarebbe stata una guerra civile e che i primi a essere uccisi sarebbero stati gli ebrei».

Cosa pensa di quanto accade ora in Ucraina?

«La situazione è imprevedibile, Putin è imprevedibile. Anche in questo caso provo a capire l’oggi attraverso quanto successo prima. Ho riletto Hannah Arendt e ho pianto: come spiega la filosofa, il regime totalitario non vuole solo un cambio di potere ma rimodellare l’umano, ed è quanto accaduto nell’Urss e in Russia. La chiusura a dicembre di Memorial, il centro che preservava testimonianza delle repressioni sovietiche, è l’ultimo segnale che Mosca cancella il passato. Ma senza memoria non si può esistere, non si è neppure nel presente ma in un vuoto spaventoso. Ad oggi non mi sento di escludere la vittoria dell’Ucraina: ciò che ha mostrato finora è un miracolo e abbiamo il diritto di credere nei miracoli».

Come valuta il ruolo della Germania nel conflitto?

«Ha una posizione molto importante, se solo lo si nega si commette un crimine. A chi qui si lamenta del prezzo del gas dico che è sangue ucraino che passa attraverso il sistema di riscaldamento. L’investimento finanziario in Russia va ricondotto a un partito, l’Spd, e a un uomo, Gerhard Schröder. Cercarono anche di dirci che l’amicizia con Mosca garantiva la pace in Europa, ma non c’è pace proprio a causa di Mosca. Già prima del 2014 aveva distrutto la Cecenia due volte e commesso crimini contro l’umanità. In Russia si tolgono i bambini alle coppie omosessuali e non si lascia guidare, considerandolo malato di mente, chi come me non è cisgender (parola con cui si indica che l’identità di genere corrisponde al sesso biologico, ndr). La Russia è dunque un buon partner d’affari? Sinora non si sta rispondendo».

Pesa ancora nei rapporti della Germania con la Russia l’eredità della Seconda guerra mondiale?

«Quanto accaduto allora rende la relazione emotivamente ed intellettualmente difficile per i tedeschi. L’identità della Germania è fatta da quel conflitto, dalla Shoah, dalla divisione del Paese. C’è chi ricorda che l’Urss liberò Auschwitz e chi dice che “il suo esercito ci ha violentati e distrutti”. Sullo sfondo c’è il problema che non si insegna la complessità della storia. Ad esempio: se bisogna essere grati all’Armata Rossa, allora bisognerebbe esserlo anche verso gli ucraini che facevano parte di quell’unico esercito. Al contempo, tra gli ebrei con cui parlo, alcuni riferiscono che gli antenati furono uccisi sia dai tedeschi sia dagli ucraini; esprimono solidarietà a Kiev ma pensano vada ricordata anche quella parte della storia. In effetti abbiamo una speranza come Europa, come Paesi, come esseri umani, solo se iniziamo ad affrontare tutto ciò che è successo».

Lei ha vissuto a Istanbul. Che effetto le fa il ruolo che Erdogan si sta ritagliando come mediatore?

«Non credo si possa parlare con i dittatori in modo democratico. Il presidente turco lo sa mentre l’Occidente, abituato al dibattito, è in difficoltà. Quindi, se sarà Erdogan a rendere questa guerra se non altro meno orribile per gli ucraini, lo ringrazierò comunque. Il conflitto deve finire il prima possibile. Sono sempre stata contro le armi, ma ho cambiato idea rapidamente. “Ne abbiamo abbastanza per morire lentamente”, mi dicono i miei amici ucraini. Bisognerebbe dargliene di più».

Che impatto si può avere come scrittori?

«Da un lato sono pessimista, dall’altro so che il mio compito è guardare ciò che accade e lasciarne traccia. Penso a scrittori come gli afroamericani James Baldwin e Toni Morrison e a quanto siano stati importanti pure per chi è venuto dopo. Anche un movimento come può essere oggi #MeToo non nasce dal nulla ma da quanto lo ha preceduto. Lo stesso Baldwin disse che il nostro lavoro è essere lì quando arriva la tempesta per testimoniare ed esserci ancora quando se ne sarà andata. Probabilmente chi verrà dopo non ricorderà i nostri nomi, ma raccoglierà le nostre conoscenze. Abbiamo secoli d’esperienza su come sopravvivere, e sopravviveremo».