La Lettura, 4 settembre 2022
Su "Poeti d’Ucraina" a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai (Mondadori)
Girarci attorno è inutile: il libro di poesie di cui stiamo per parlare non si può leggere come un libro normale. Certo, bisognerebbe prima mettersi d’accordo su cosa significhi il termine normalità in ambito poetico, visto che una poesia di per sé dovrebbe costituire comunque una piccola festa espressiva e, di conseguenza, una felice eccezione (così almeno sosteneva Wisława Szymborska). Ma il fatto è che leggere l’antologia Poeti d’Ucraina, che esce in questi giorni da Mondadori, senza avvertire la fortissima pressione del contesto presente è praticamente impossibile. L’occhio scorre sulla pagina, ma la mente, cercando al di fuori la convalida o la smentita più incontrovertibili di ogni asserzione e di ogni significato, va subito là, alla guerra, o almeno alle immagini che abbiamo visto, alle notizie che ci sono state riportate, all’idea che ce ne siamo fatti.
Diamo intanto qualche ragguaglio su come il volume è stato costruito. I due curatori, Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai, hanno diviso non tanto i poeti (che sono trentaquattro) ma le poesie in sei sezioni, corrispondenti ad altrettante fasi della storia ucraina passata e presente, dagli anni Sessanta al maggio di quest’anno. Le ultime tre fanno riferimento ad altrettante «svolte della storia», come recita una di queste poesie: la proclamazione dell’indipendenza (24 agosto 1991) dalla tramontante Unione Sovietica e dunque la nascita dello Stato unitario; l’occupazione della Crimea da parte della Federazione Russa nel 2014, che di fatto costituisce l’inizio della guerra che dura tutt’oggi; infine il 24 febbraio 2022, che ha condotto all’estensione del conflitto a tutto quanto il Paese.
Questo particolare taglio militante ha parecchie conseguenze, prima fra tutte quella di mettere in rilievo come la questione ucraina sia legata a doppio filo a una questione russa, e come l’ostilità tra i due popoli (da queste poesie il mito della loro amicizia risulta parecchio indebolito) abbia radici molto profonde, risalendo già all’epoca zarista e probabilmente ancora più addietro. Da almeno un secolo e mezzo, in ogni caso, la storia della poesia ucraina sembra coincidere in gran parte con una storia di dissidenza nei confronti dell’Impero, sovietico o russo che sia (proprio come una storia di dissidenza in gran parte è stata — va detto — quella della poesia russa sul fronte interno dell’Unione sovietica: è stato proprio un poeta esule russo, Iosif Brodskij, a sostenere che «il dilemma fondamentale della poesia è la contrapposizione tra il poeta e l’impero»; e pensava a tutti gli imperi del mondo e della storia, sia di fatto sia di pensiero).
Dipenderà anche dall’orientamento dei curatori, che per altro nelle introduzioni alle sezioni trovano sempre le parole giuste, ma certo colpisce non poco trovare tante poesie composte negli anni Ottanta o Novanta che sembrerebbero scritte in questi ultimi mesi. Solo un esempio: «Le nostre città sotto le erbe alte./ Col petto bucato dalla fionda./ In cerchio, in cerchio siamo morti,/ Senza per questo diventar migliori./ Bambini coi nonni, ossa su ossa/ Incastonati come madreperla» (Marianna Kijanovs’ka).
Ma torniamo al punto. In una sua poesia Anastasija Afanas’jeva scrive: «È possibile la poesia/ Quando la storia s’è desta/ Quando i suoi passi/ Risvegliano ogni cuore/ E non si può parlare d’altro;/ Ma non si può neanche parlare.// Mentre scrivo questo/ Poco distante/ Ogni opzione è messa da parte».
Non pochi poeti dell’antologia si sono posti di fronte allo stesso dilemma, o appunto «opzione», che poi è quella che riguarda il senso, la plausibilità, la legittimità della scrittura poetica a fronte di eventi e premure che nella parola sembrerebbero non starci. Ma questa del resto non è che la stessa, grande domanda che si trova dietro a ogni poesia non esteriormente fondata. Solo che qui, come purtroppo tante volte è già accaduto nella storia, la gravità degli eventi porta quella domanda all’estremo, fino al limite di rottura del patto tra la parola e la cosa. Viene in mente il monito di T. W. Adorno riguardo alla problematicità dello scrivere poesie dopo Auschwitz (ma prima di lui già il nostro Umberto Saba aveva detto qualcosa di simile); o ancor più quella poesia in cui Bertolt Brecht sosteneva che i «tempi», che erano quelli oltremodo oscuri del nazionalsocialismo, facevano apparire «quasi un delitto» lo scrivere di alberi.
In fondo, la pressione a cui viene sottoposto il lettore di cui si diceva all’inizio non è molto diversa. È vero, queste poesie non si leggono liberamente, cioè senza essere in qualche misura di parte. Ma si tratta, come detto, delle questioni stesse su cui vive la letteratura: il rapporto di convergenza e divaricazione tra etica ed estetica, il diverso peso e grado di realtà tra le parole e la vita, il rapporto, che può perfino diventare un ricatto, tra la libertà dell’evento poetico e la responsabilità verso il presente, o ancora la relazione tra l’intervento diretto e la mediazione formale, tra la giustizia della poesia e la giustizia delle cose. Proviamo solo a ragionare, diciamo così, al contrario: se qualche coraggioso pubblicasse un’antologia di poeti contemporanei russi, come la leggeremmo, come la prenderemmo? Pro o contro, o magari, forse meglio, ponendoci domande e provando a comprendere e a sopportare le contraddizioni? Proprio per questo ci mettono così alla prova adesso queste poesie, forse persino più di quanto molte di loro non intendessero fare.