La Lettura, 11 settembre 2022
Su "Il pianto delle troiane" di Pat Barker (Einaudi)
Euripide stigmatizzava la guerra e gli orrori della guerra; le sue tragedie spesso narrano i conflitti dal punto di vista dei vinti (o degli ultimi tra i vinti, almeno per gli antichi greci: le donne). In particolare, Le troiane, che debuttò nel 415 a.C., travestì con le vesti arcaiche delle vedove di Troia altre vittime, ben più recenti, di una violenza consumata in guerra appena un anno prima. E cioè la strage dell’isola di Melo (oggi Milo), compiuta dagli ateniesi nel 416 a.C., che aveva ripetuto «in piccolo» il genocidio di Ilio: tutti gli uomini sconfitti e catturati erano stati uccisi, tutte le donne vendute come schiave. L’efferatezza dei guerrieri era stata tale che la democratica Atene ne era rimasta scossa: Euripide sapeva bene che le macerie simboliche di Troia sulla scena avrebbero ricordato al pubblico quelle ancora fumanti di Melo.
Duemilaquattrocento anni dopo Euripide, le macerie di Troia, così iconiche già a quel tempo, portano ormai il peso di migliaia di nuovi massacri, e di milioni di nuove vittime delle guerre. E infatti anche quest’anno Le troiane o le loro rivisitazioni sono andate in scena più volte. A febbraio, nella produzione del Centro Teatrale Bresciano, la tragedia è stata in tour con l’adattamento di Angela Demattè e la regia di Andrea Chiodi, tra le interpreti Elisabetta Pozzi. Il 26 luglio, lo spettacolo Après les Troyennes, creazione del coreografo brasiliano Claudio Bernardo ispirata a Euripide, ha chiuso la stagione della Fondazione Inda al Teatro Greco di Siracusa. Rappresentazioni che hanno evocato l’orrore del conflitto in corso in Ucraina, ma anche la violenza contro le donne, o l’umiliazione di chi è costretto a lasciare il proprio Paese e a migrare.
Proprio come fece Euripide, la scrittrice inglese Pat Barker, nel suo romanzo Il pianto delle troiane (in uscita per Einaudi Stile libero) sceglie di non riferirsi all’una o all’altra specifica guerra contemporanea, ma torna all’arcaico. Un arcaico cristallino, nitido, realistico al massimo grado — rende visibili perfino i vermi rossi nel ventre di un cavallo morente, o l’instabilità fluttuante di un velo nero nell’aria agitata davanti al mare — ma talmente ripulito da ogni riferimento diretto all’attualità da puntare un dito affilato contro qualunque sopraffazione. La crudeltà dei vincitori verso i vinti, certo. La violenza del maschilismo verso il mondo femminile, soprattutto. Però anche il sopruso del forte contro il debole. E con quel dito ci tocca da vicino.
Barker lo ha fatto anche nel precedente romanzo, Il silenzio delle ragazze, ispirato a parte dell’Iliade di Omero, e lo fa in questo nuovo lavoro che ne costituisce il seguito: Il pianto delle troiane segue infatti le ragazze prigioniere nelle baracche degli schiavi davanti alle macerie di Troia, nell’accampamento degli achei. I vincitori sono in stallo, bloccati sulla costa inaridita da dieci anni di guerra, ai piedi della città vinta, dove i campi sono ancora scavati dalle impronte del duello tra Ettore e Achille, e il corpo del re sconfitto, Priamo, giace insepolto sulla spiaggia. Non possono partire perché un vento soprannaturale inchioda le navi alla costa e impedisce di levare l’ancora. Odisseo non può puntare verso Itaca, Agamennone non può accertarsi del proprio destino tornando da Clitemnestra (Cassandra gli ha predetto la morte per mano della moglie), Menelao non può riportare Elena a Sparta.
Un tempo sospeso, che Barker coglie raccontando la vita nel campo delle schiave troiane: le descrive ancora sotto choc dopo l’eccidio di genitori, figli, fratelli (e al lettore vengono in mente l’ex Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Ucraina). Ragazze e bambine che entrano nelle pagine del libro quasi sbandando, barcollando, ancora intontite dal trauma. Per i vincitori sono invisibili, insignificanti, trofei di guerra la cui vita o morte è di nessun rilievo. Per il lettore invece si stagliano sulle rovine con grandezza crescente, attraverso lo sguardo di Briseide, la narratrice: non è più schiava, lei che era la schiava di Achille, perché l’eroe prima di morire l’ha data in sposa al nobile Antimo. Ma da donna «libera», Briseide misura la pochezza della libertà di una donna tra gli achei: non è rispettata in quanto persona, ma solo in quanto moglie di un uomo. Peggio ancora, nessuno si rivolge davvero a lei: salutano il rigonfiamento della sua pancia, perché porta in grembo il figlio di Achille.
L’altro figlio di Achille, il prepotente Pirro, si aggira come tutti i suoi alleati guerrieri interrogandosi sul motivo (l’ira degli dei?) di quel vento soprannaturale, imbestialito dall’indugio sfibrante dell’attesa. E nell’attesa si abbandona a libagioni e violenze, come e più degli altri. Tanto che nella testa di chi legge il libro risuonano di continuo le ultime parole di Priamo, ucciso proprio da Pirro: «Il figlio di Achille? Tu? Non gli somigli affatto».
Nell’Iliade, una delle pagine più belle è l’accoglienza che Achille riserva al nemico Priamo nella propria tenda. Il feroce Achille, che ha ucciso Ettore, accoglie con rispetto il vecchio padre che vuole seppellire il corpo del figlio. Barker coglie bene l’apice tragico della scena omerica, e ne fa il motore della narrazione: alcune schiave troiane vogliono seppellire Priamo, e il loro «delitto», che contravviene alla «legge» ma non alla giustizia (come nell’Antigone di Sofocle) mette in moto l’ira di Pirro e dei guerrieri-aguzzini achei, e sancisce l’alleanza tra le donne schiave, Ecuba, Andromaca, Elena, Cassandra. Nell’articolare l’azione delle schiave e la crescente reazione dei «padroni», Barker però fa emergere i diversi caratteri dei personaggi, con grande precisione. Come se Briseide maturasse via via un’ipersensibilità alla protervia e al suo opposto, la gentilezza, anzi la pietas, e le percepisse in ogni sfumatura: la crudeltà di Pirro, sì, ma anche l’ironia gelida di Odisseo, la sguaiatezza di Tersite, la superbia di Agamennone, il torpore di Antimo. E per converso tra i troiani nota la fragilità di Ecuba, la disperazione inarticolata di Andromaca, la fermezza di Amina, però anche la rigidezza di Cassandra, la vanità di Elena, la debolezza di Calcante diventato indovino per gli achei.
Alla prova dei fatti (ma è meglio non entrare nei dettagli della trama), sarà proprio l’invisibilità delle donne, il fatto che non siano notate (nemmeno sulla scena di un crimine), a inchiodare il colpevole dell’ira degli dei e del vento soprannaturale. Ma intanto, lungo la strada, Barker punta il dito su ogni singola violenza. Sul potere di vita e di morte dei liberi sugli schiavi. Sulla prevaricazione noncurante degli uomini ai danni delle donne. Ma anche sulla malignità del più potente sul più indifeso — del re sul cortigiano, come pure della schiava emancipata sull’amica rimasta ancella.