Corriere della Sera, 11 settembre 2022
Il problema del calo demografico
La legislatura che finisce è stata, per età media degli eletti, la più giovane della storia repubblicana ma non si è distinta per aver pensato molto alle prossime generazioni. A giudicare dai programmi elettorali e dalle dichiarazioni dei leader, quella che comincerà dopo il 25 settembre se ne occuperà molto di più. Per la prima volta i diciottenni votano anche per il Senato. L’elettorato passivo è però ancora fermo a 25 anni per la Camera e 40 per il Senato. Sanna Marin, la premier finlandese, ne ha 36. La società invecchia inesorabilmente, ma il tema demografico è trattato spesso come qualcosa di ineluttabile. Un destino che sembra sfuggire dalle nostre mani. Troppo grande per essere, paradossalmente, una priorità. Meglio rimuovere il problema, dopo tutto riguarda i posteri. Non li conosciamo nemmeno e, parafrasando Oscar Wilde, non hanno fatto nulla per noi. E poi ci sono altre e più urgenti emergenze da affrontare. Subito.
Nel 2050 avremo tre anziani per ogni giovane. Quest’ultimo, un malcapitato, non saprà più come assistere i propri concittadini sempre meno autosufficienti, né potrà garantire loro il sostegno del sistema pensionistico. Non ci rendiamo conto di quanto le scelte del presente riducano progressivamente il grado di libertà e di benessere dei nostri figli e nipoti. Le misure a favore della famiglia e del lavoro femminile sono importantissime. Vitali.
Ma è difficile che si aumenti il tasso di natalità senza più coraggiose politiche per l’immigrazione, sulle quali ovviamente si perdono voti. Dunque, buttiamo la palla o la lattina più in là. Intanto c’è tempo. No, il tempo non c’è più. Un dato estremamente significativo – e proprio per questa ragione ignorato – è stato citato in più occasioni dal ministro della Pubblica Istruzione, Patrizio Bianchi: in soli due anni, la popolazione scolastica è diminuita di 300 mila unità. Ed è come se fosse sparita una città come Catania tutta abitata da studentesse e studenti.
Un dramma nazionale. Al pari dello scandalo di avere il maggior numero di giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano. Primi in Europa in questa disonorevole classifica, mentre siamo agli ultimi posti per percentuale di laureati. Un Paese sempre più anziano tende a ripiegarsi su se stesso, coltiva la paura di perdere il benessere, non la voglia o meglio la fame (come nel Dopoguerra) di accrescerlo. È più sensibile alla stabilità delle protezioni rispetto alla creazione delle opportunità. Le prime sono necessarie se affrontano i bisogni di chi è in difficoltà, dannose se danno l’impressione di una totale prevalenza dei diritti rispetto ai doveri, svincolando la crescita anche personale dallo studio, i sacrifici e persino i fallimenti. Se poi incoraggiano l’avversione al rischio – tipica di una società anziana – contagiano in questo modo anche le giovani generazioni, diffondendo un clima di pessimismo e di rassegnazione. Il 69 per cento dei giovani tra i 18 e i 35 anni, secondo una ricerca Ipsos, vive ancora nella famiglia d’origine. Le seconde, le opportunità, non devono essere tante se – com’è avvenuto nel 2019, l’anno prima della pandemia – 107 mila italiani se ne sono andati all’estero, di cui 90 mila giovani. Del resto, come testimoniano i dati del ministero del Lavoro, l’Italia è seconda solo alla Romania quanto a povertà lavorativa dei più giovani. Pagati scandalosamente poco. Non si investe sui talenti solo perché ci sono degli incentivi fiscali. È quasi un insulto.
Le misure di sostegno sono necessarie ma non sufficienti. È una questione di mentalità, di visione del futuro. Se si considera l’economia in una condizione statica (ragionamento che stava alla base di quota 100, escono gli anziani ed entrano i giovani) si sottovaluta l’evoluzione delle tipologie di lavoro legate alla digitalizzazione, alla robotica, all’intelligenza artificiale. Quasi come se il posto di lavoro si passasse di padre in figlio e restasse sempre lo stesso. Immutato. Se si attribuisce l’attuale tasso di crescita unicamente al bonus 110 per cento, come fanno i suoi sostenitori, si mostra un totale disinteresse per la straordinaria reazione delle imprese – quelle che stanno su un mercato aperto, concorrenziale – alla pandemia e alla crisi energetica. La crescita la fanno soprattutto loro. Si sono reinventate, hanno innovato, ci hanno provato, senza aspettare alcun sussidio. Ascoltare troppo le corporazioni non aiuta il ricambio generazionale, lo ostacola. Forse non è un caso che l’Italia abbia tassi d’imprenditorialità giovanile tra i più bassi in assoluto. Secondo una recente ricerca di Unioncamere, in dieci anni abbiamo perso un quinto delle imprese guidate da giovani sotto i 35 anni, soprattutto nelle Marche, in Abruzzo e Toscana. Unica eccezione: il Trentino-Alto Adige. Quelle nel settore manifatturiero sono diminuite addirittura di un terzo. C’è però uno spiraglio di speranza che riguarda i settori più avanzati, nuovi, aperti alla concorrenza. Le cosiddette start up innovative, circa 14 mila, sono state create per il 15,7 per cento da under 35. Dovrebbero essere guardate con ammirazione, non con quel distacco o scetticismo – anche dal mondo bancario – che le induce spesso a trasferirsi all’estero o a ritenere di operare in una società con troppi vincoli burocratici e culturali. Molte di loro non ce la faranno. È normale. Ma forse dovremmo premiare anche i fallimenti. C’è qualcuno che ci prova. E non ha paura del futuro, lo sfida.