Robinson, 10 settembre 2022
Biografia di Massimo Bubola raccontata da lui stesso
Il mondo artistico di Massimo Bubola – di mestiere cantautore – è popolato da storie riesumate dalla memoria e che a volte sfiorano la leggenda.
Scrive canzoni e libri come se i due linguaggi si affacciassero sullo stesso paesaggio poetico. È considerato un grande chitarrista con una voce che a me ricorda i cantastorie: un parlato che cresce fino a diventare una vita sotto la pioggia. Non a caso tra i poeti che ama c’è Dino Campana, che Bubola racconta e canta. Nel suo nuovo romanzo Sognai talmente forte(in uscita da Mondadori) c’è una pagina che accomuna Rimbaud a Campana. Uno muore di cancrena, l’altro di setticemia: «Storie sbagliate per questi poeti che, abbandonati dalla poesia, abbandonarono la poesia,indifferenti alla fama e alla gloria», dice.
Tu scrivi che le loro pagine non li salvarono.
«Restarono come svuotati, come se i loro versi fatti di parole fossero franati su di loro fino a ricoprirli. Credo che di poesia, soprattutto se è grande, si possa morire. Quanto a Campana, pochi l’hanno capito e molti l’hanno deriso; a farlo sono stati soprattutto gli altri poeti».
Mescoli o meglio affianchi la produzione musicale ai racconti dei tuoi romanzi. Due linguaggi diversi messi sullo stesso piano. Perché?
«Perché tutto nasce dalla medesima fonte, la stessa memoria, lo stesso sguardo. Quando ho scritto Ballata senza nome, il romanzo sui caduti della Grande Guerra, mi sono accorto che non era poi così diverso daAndrea la canzone su un soldato morto, nella cui vicenda intrecciavo una specie di amore proibito del tipo Achille e Patroclo».
Quella canzone, con un incipit molto suggestivo – “Andrea s’è perso, s’è perso e non sa tornare” – tu la scrivesti per Fabrizio De André.
«Con Fabrizio la collaborazione è stata lunga.
Cominciò con “Rimini” ed è arrivata fino a “Don Rafaé” e “Hotel Supramonte”».
Come sei arrivato a lui, considerando che eri molto giovane?
«Desideravo fare il cantautore. Lo comunicai a mio padre che credo non sapesse neppure il significato della parola. Mi chiese solo: “che mestiere è?”. Gli risposi che era quello per cui mi sentivo tagliato. Allora studiavo legge a Bologna e nel mio futuro c’era la professione di notaio. La stessa che praticava uno zio.
Non mi vedevo ad aprire uno studio, arredarlo con mobili pesanti, passando la vita a stilare contratti e a parlare di eredità. Insomma, alla fine si arrese all’evidenza».
Lui di cosa si occupava?
«Era maestro. In fondo non gli dispiacque più di tanto che deviassi sul più incerto dei mestieri. Fu il primo a farmi amare la poesia. Diceva: ascoltala ma non cercare di capirla perché sarebbe una mancanza di rispetto verso il poeta».
Cosa voleva dire?
«Non dovevo sovraccaricare la poesia di interpretazioni. La forza di un verso sta nella sua immediatezza. Fu un insegnamento che servì ai miei primi tentativi di scrittura. Facevo il liceo a Verona e un professore mi incoraggiò. Correggeva certi miei componimenti, facendomi notare dove il verso zoppicava o dove l’immagine, diciamo l’uso della metafora, rischiava di essere troppo banale. È stata una buona scuola, messa a frutto nei testi delle mieprime canzoni».
Dove sei nato?
«A Terrazzo in provincia di Verona, ma le origini sono istriane. I miei avi commerciavano in cavalli e alla fine dell’Ottocento si stabilirono nella bassa veronese. Il mio primo romanzo si intitola Rapsodia delle terre bassee racconta un po’ il Veneto degli anni Cinquanta, dove ancora sopravviveva una cultura orale che ho tentato di restituire sotto forma di ballata».
Torniamo a De André e a quell’esordio.
«Nel 1975 andai a Milano per un’audizione. Non ci fu il colpo di fulmine ma per cautelarsi da eventuali errori di sottovalutazione fui messo sotto contratto. E l’anno dopo la casa discografica mi chiese di lavorare con De André».
Lavorare in che senso?
«Provare a scrivere testi e musica con lui. Nel nostro primo incontro non scattò nulla. Non riuscimmo a dirci niente di significativo. Fabrizio era notoriamente un timido. Aveva una certa predilezione per i poeti e i cantautori francesi. Si era ispirato a François Villon e a George Brassens. Io ero più anglista e traducevo poeti che poco c’entravano con il suo mondo. Finimmo col parlare di calcio. Lui tifoso, mi pare del Genova, io del Verona. In fondo, gli dissi, almeno calcisticamente, siamo due provinciali. Scostò con un gesto il lungo ciuffo dalla fronte e mi guardò come se volesse dire qualcosa, ma tacque».
Di cosa immagini avrebbe voluto parlarti?
«Della nostra evidente differenza sociale. Fabrizio proveniva dall’alta borghesia genovese. E credo che sentirsi ridotto a un provinciale non gli facesse piacere. Per tutta la vita aveva lottato contro le sue origini. Ma alla fine conservò quei modi che ne facevano un soggetto tormentato. Il ruolo anarchico che si era disegnato e che ritroviamo in tante dichiarazioni riuscì in parte a contenere le sue radici, ma non a cancellarle».
Dopo quel primo incontro che accadde?
«Trascorsero alcuni mesi di silenzio. Poi una notte, ma erano già le 4 del mattino, mio padre prese una telefonata. Venne da me piuttosto incazzato e disse: c’è uno al telefono che si spaccia per De André, dice che lo devi raggiungere in Sardegna».
La lunga collaborazione con De André immagino ti abbia dato e ti abbia anche tolto qualcosa.
«Intanto provo un certo fastidio nell’essere definito “collaboratore”. Non è che andassi in Sardegna a tagliare il prato della villa. Scrivevo musica e versi.
Offrivo la mia visione poetica del mondo. Canzoni come Rimini oFiume Sand Creek, sia pure in contesti diversi, nascono dal mio rapporto con la Storia, con ciò che produce di bello e di terribile, di giusto e di ingiusto».
La Storia, ma anche i personaggi che diventano nelle tue mani leggenda.
«Mi piace immaginare che qualcuno vada oltre la verità dei fatti per entrare nel sogno. L’ho realizzato con la trilogia dedicata a Garibaldi, con Dino Campana, Tina Modotti, ma anche con una figura anonima come Andrea, che poi è tornata nelle undici storie di caduti della grande Guerra, come racconto in Ballata senza nome, dalle cui spoglie verrà scelto il milite ignoto da tumulare a Roma come simbolo di tutti i caduti».
Tornerei al tuo nuovo romanzo “Sognai talmente forte”: il titolo è la parte di un verso di “Fiume Sand Creek” (Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso), a riprova di questo intreccio tra la canzone e la narrativa.
«Penso che la canzone, come la pittura o la stessa narrativa, generi immagini. Di formazione provengoda studi classici. Ho amato il latino e il greco e ho colto nell’antichità un modo di stare al mondo che ancora può insegnarci qualcosa».
Per questo hai scelto come protagonista del romanzo un personaggio che hai chiamato Callimaco?
«Callimaco è uno scrittore alessandrino dell’età ellenistica: per la sua capacità di connettere la metrica alla vita, ha avuto un’influenza importante sulla poesia successiva. Nel mio piccolo ho cercato di fare la stessa cosa: portare la canzone nella vita e questa in quella».
Il Callimaco che descrivi è alla fine dei suoi giorni.
«Ho pensato al romanzo come a un’ultima veglia, immaginata prima che una vita esca definitivamente di scena. Una sorta di testamento, dentro cui ci sono le cose importanti che verranno lasciate a chi gli succederà».
Ci sei molto tu in questa descrizione.
«Forse per una forma di dovere verso gli altri, verso coloro che amo e a cui mi piacerebbe lasciare qualcosa di duraturo di me».
Non è un po’ troppo presto?
«Anagraficamente è vero. Ma da un punto di vistainteriore ho sentito che era giunto il momento di fare due conti. Nel romanzo ci sono i libri che ho letto e che pensavo di aver dimenticato, ci sono le mie canzoni che mi tolgono dall’esilio mentale e mi riportano a casa, c’è la bellezza minacciata da chi la vuole uccidere, ci sono i miei sogni che non guariscono più la vita, c’è il disappunto per aver mancato la grande epopea del rock, c’è la mia chitarra e ci sono i poeti che ho amato e la Grecia antica che ho sognato di rivivere e c’è la scrittura che nasce dalla semina delle parole, dalla vita che le parole curano, a volte in modo sorprendente. E in tutto questo c’è anche un bisogno diffuso di risarcimento».
Che nasce da cosa?
«Dalla necessità umana guarire da una ferita o da un dolore attraverso il potere della scrittura. Potere che trova il suo acme nella poesia e il riflesso nella canzone».
La parola risarcimento fa pensare anche ai torti subiti. Alcuni di questi torti sono in te rimasti sospesi?
«Il più grande torto è la morte che toglie ogni residua possibilità di vita. Ha il potere di chiudere ogni cosa, salvo la memoria, e per questo Callimaco convoca attorno a sé i figli nel nome del lascito che trasmetteràloro».
Come hai vissuto la morte di De André?
«Con un sentimento di sgomento per tutto quello che ha rappresentato, per gli anni indimenticabili trascorsi assieme, per il coraggio che ha avuto nell’accogliere un giovane come me totalmente sconosciuto, e apprezzarlo per le doti dimostrate. Ma anche con il fastidio di vedere progressivamente crescere la sua beatificazione, dimenticando o rimuovendo tutti coloro che hanno contribuito alla sua grandezza».
Ha senso usare la parola “amicizia”?
«Si tratta di una parola dolcissima e impegnativa al tempo stesso. Mi viene in mente una piccola frase ne
L’Avversario di Emmanuel Carrère: “Un amico, un vero amico, è anche un testimone, e il suo sguardo ti permette di valutare meglio la tua vita”. Ecco, rare volte è accaduto che lo sguardo di Fabrizio mi rivelasse qualcosa che già non sapevo. Il che non ci ha impedito di realizzare delle bellissime canzoni».
Sembra quasi che tu ne faccia una questione di verità.
«Ristabilire la verità delle cose è una forma di supremo risarcimento agli errori che commettiamo. Quando realizzammo Una storia sbagliata, la canzone che dedicammo alla morte di Pasolini, mi ponevo lo stesso problema: ero stanco di sentir parlare di oscuri complotti mai dimostrati, quasi che un grande artista non potesse morire per le proprie scelte sbagliate, ponendo invece quella fine violenta e tragica nellaluce di un potere sinistro deciso a sopprimere una voce libera e scomoda. Pasolini non ne aveva bisogno».
Un altro modo di beatificarne l’esistenza?
«Tendiamo a vedere nella morte il riscatto di tutti i peccati ancor prima di averli giudicati. Tanto la nostra modernità è crudele durante la vita, quanto mi risulta edulcorata nel momento della morte. Diverso era l’atteggiamento dei greci: entravano dai cancelli della morte camminando all’indietro. Ne parlo nella parte finale del romanzo: nell’ora della morte contemplavano così il loro passato».
E tu?
«Se penso alla mia vita che ruota all’indietro, il passato si colora di volti e vicende che appaiono e svaniscono mescolandosi con immagini di altre esistenze che avrei voluto vivere. È in questo spazio della memoria fantastica prendono corpo i miei personaggi».
Come fossero un sogno?
«Perché no? Un tempo l’oniromanzia era un’arte suprema e i sogni godevano di una salute migliore essendo indubbiamente più longevi di noi».