Robinson, 10 settembre 2022
Su "L’infinito istante" di Geoff Dyer
Geoff Dyer è un uomo curioso e uno scrittore appassionato. L’incrocio tra queste due caratteristiche lo porta a viaggiare molto e a scrivere delle proprie passioni, che sono molteplici: la musica jazz, i luoghi esotici, il festival del Burning Man in Nevada e, ora, la fotografia. Questo libro è stato in originale una riflessione sui tramonti di carriera e di vita e dunque si svolge, per così dire, in piena luce. Per i tanti che si avvicinarono a lui al tempo diNatura morta con custodia di sax,il testo è una “Natura morta con custodia di macchina fotografica”. Recupera la libertà e l’istinto narrativo del predecessore. Così come non suona nessuno strumento, Dyer non possiede e non usa un apparecchio, probabilmente neppure scatta con il cellulare: ha un account Instagram, ma zero post. Con un chiasmo si potrebbe dire che ascolta le fotografie e guarda il jazz. Sicuramente c’era nell’aria Chet Baker mentre osservava queste immagini. Scrisse nella prima Natura morta: “ Qualsiasi foto, nonostante colga un attimo infinitesimale della realtà, ha una durata percettiva che si estende per parecchi secondi sia al di qua sia al là del momento congelato dallo scatto, fino a includere ciò che è appena successo e ciò che sta per succedere”. Scrive nella seconda: “ Nella fotografia non esiste il frattempo. C’era quel momento e ora c’è questo e in mezzo non esiste nulla. La fotografia è, in un certo senso, la negazione della cronologia”. Che cosa coglie, allora? The ongoing moment. Questo il titolo originale del libro. Potremmo discutere se è stato giusto tradurlo “ L’istante infinito” o se invece fosse meglio “ L’istante in corso”, dove ciò che è si perpetua perché fissato e sol per questo tende all’infinito. Ma sono sottigliezze linguistiche. Non di parole, ma di immagini, suggestioni, sogni addirittura, vive la carrellata di Dyer sulla fotografia, dedicata in realtà a quella americana.
Alla base c’è un’affermazione di Dorothea Lange, secondo cui “Ogni fotografia è l’autoritratto del fotografo”. Non si può dunque scindere l’immagine dal suo autore o meglio da chi l’ha colta, circoscritta, creatain quel particolare modo. E questo Dyer fa. Come per il jazz parte dagli oggetti e si perde nelle vite. Per lui “ ogni fotografia è l’autobiografia del fotografo”. Per Diane Arbus “ il soggetto fotografato è più importante della fotografia” e Dyer sceglie esattamente questo punto di partenza per arrivare a un altro soggetto, quello che fotografa. Il filo che segue è tematico: ciechi, mendicanti, recinti, panchine, cappelli, nudi femminili. Per giungere a Eggleston, a Kertész, a Weegee. Non sipuò capire il risultato se non si conosce il metodo. E quindi cerca di sapere se l’obbiettivo era nascosto o in vista, se il flash era sparato, perché il fotografo ha voluto scattare dall’alto. Cuce una storia tra le storie, convinto che già esistesse sotto traccia, che ogni immagine fosse il capitolo di un romanzo su quell’argomento e dunque sia lecito presupporre che il cappello dell’uomo all’uscita della metropolitana sia lo stesso che stava sulla testa del contadino decenni prima e insieme raccontinol’America, la sua gente, i sogni spezzati.
Ma è necessario sapere di più? Possiamo limitarci a guardare due nudi di donne e trarne considerazioni anche senza sapere che sono entrambi di Alfred Stieglitz, ma uno raffigura sua moglie, Georgia O’Keefe, l’altro la terza moglie Rebecca del suo amico e collega Paul Strand? Senza sapere che lei e Stieglitz ebbero una breve relazione? Ma che ad amarsi, sotto il sole del New Mexico, furono poi le due donne? Cambierebbe il nostro sguardo? Probabilmente sì, perché ha cambiato quello dell’autore, ne ha mirato l’indagine, ferito la consapevolezza. È voyerismo? E come potrebbe non essere anche questo?
Dyer teorizza l’esistenza di un continuo dialogo per immagini tra i fotografi: è così che si fanno rivelazioni, spiegano emozioni, muovono obiezioni. È così che “ leggono” Borges, diverso a ogni ritratto non solo per effetto del tempo e delle pose, ma anche dell’interpretazione ( attraverso lo stile) di chi lo ritrae. È così che ricompongono “l’anagramma delle città”, soprattutto di New York, un enigma, un cruciverba dove le verticali sono i palazzi di Weston e le orizzontali le strade di Weegee. Se è vero come ha sostenuto Dorothea Lange che “ la fotografia è lo strumento che insegna alla gente come vedere senza una macchina fotografica”, Dyer è uno di quelli che hanno imparato. Nel raccontarcelo non fa accademia, proprio per questo il libro è meno riuscito quando si sofferma sull’analisi e invece vola quando si concede libere associazioni e, soprattutto, l’autore fa il proprio mestiere: quello di raccontare.