la Repubblica, 10 settembre 2022
Giovani italiani sottopagati
Giovani, anzi giovanissimi, lavoratori italiani a rischio povertà. Sono tanti, 360 mila nella fascia tra 20 e 29 anni. Il 13,1% nel 2021: quasi record d’Europa, secondi solo alla Romania nella classifica Eurostat, e record nel decennio. Significa che guadagnano meno di 10.591 euro all’anno, sotto gli 876 euro al mese, anche meno del Reddito di cittadinanza.
Di loro la politica no n si occupa da tempo, neanche in campagna elettorale. Dovrebbe, anche perché la povertà lavorativa non riguarda solo la gioventù, allorquando la precarietà sembra il prezzo da pagare all’inesperienza, quasi un biglietto d’ingresso nel mercato del lavoro (il 62% degli occupati under 24 è a termine). Il lavoro poverosi trascina anche dopo, quando giovani non si è più.
Lo dice il rapporto che la commissione di esperti, voluta dal ministro del Lavoro Orlando, ha reso pubblico a gennaio. La povertà lavorativa tocca quasi un lavoratore su quattro, di tutte le età: 3 milioni di persone. Dilaga tra giovani, donne e al Sud. E porta l’Italia al quartoposto in Europa.
Salari bassi
Poche ore di lavoro a settimana, poche settimane nell’anno, salari bassi: queste le cause della povertà lavorativa. Salari bassi perché la produttività è bassa, quella del capitale perché le imprese investono e innovano poco. Risultato: l’Italia è in coda, ultima - secondo l’Ocse - per la crescita dei salari medi. Anzi in trent’anni - dal 1990 al 2020 - sono saliti ovunque tranne che da noi: -2,9%. In Spagna +6,2%. In Francia +31,1%. In Germania +33,7%. E con l’inflazione alle stelle pagheremo più di altri la perdita di potere d’acquisto: -3% in busta paga nel 2022, contro una media Ocse del -2,3%.
Iper precarietà
Il nodo retributivo - acuito dall’assenza in Italia di un livello di salario minimo, non risolutivo ma cruciale nell’area della giungla contrattuale - si accompagna a una precarietà oramai strutturale. Un lavoro diffuso ieri dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil definisce la precarietà come «locomotiva» della crescita economica italiana e «ultima carrozza» quando tutto si mette male. Se il Pil cresce, volano i contratti a tempo: a luglio abbiamo toccato il record storico di 3,2 milioni di occupati a termine. Nellecrisi - debito sovrano, Covid, guerra e recessione energetica - i primi a essere scaricati dalle aziende sono proprio i contrattini. Non è un caso che giovani e donne abbiano pagato il prezzo più alto in pandemia, perdendo il lavoro nel 2020. E recuperandolo poi in fretta dopo.
Il disagio occupazionale
Ma quale lavoro hanno recuperato? Dice sempre la Fondazione DiVittorio, presieduta da Fulvio Fammoni, che l’area del disagio occupazionale si è dilatata nel 2021: qui ci sono 4,8 milioni di lavoratori che lavorano con part-time involontario o tempo determinato involontario oppure sono occupati sospesi, in Cassa integrazione o inattivi, ma pronti a impiegarsi.
In quest’area di disagio vivono i due terzi degli under 24 e un terzo di chi ha tra 25 e 34 anni: quasi 2 milioni in tutto. Di questi, 388 mila hanno il doppio “disagio” non voluto: impiego sia part-time che a termine. Un mix deleterio che investe soprattutto questa fascia d’età più di tutte le altre.
Se ai “disagiati” aggiungiamo anche i disoccupati “sostanziali” - chi cerca lavoro, gli scoraggiati, i bloccati (dagli impegni in famiglia come le donne), i sospesi - tutte categorie Istat disposte a lavorare subito, si raggiunge l’iperbolica cifra di 9,1 milioni di lavoratori in difficoltà, di cui 3,5 milioni sotto i 34 anni. In queste condizioni il rischio di scivolare in povertà è altissimo. «È la conseguenza della frantumazione contrattuale per una generazione intrappolata troppo a lungo in stage e lavoretti», dice Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil.