La Stampa, 10 settembre 2022
L’impossibile blocco del Mediterraneo
«La migliore soluzione al problema della migrazione è impedire le partenze invece degli arrivi», ha ripetuto più volte Giorgia Meloni nella campagna elettorale d’agosto. Il tema della gestione dei flussi migratori, o meglio dell’interdizione alle partenze, è da sempre uno dei cavalli di battaglia del programma di Fratelli d’Italia, lo è anche oggi nonostante – secondo i sondaggi – l’elettorato italiano sia più preoccupato di affrontare un inverno al freddo che degli sbarchi sulle coste italiane. Ma si sa quanto più è ridotto il tempo dei comizi, tanto più funzionano gli slogan e le semplificazioni. Così torna sulla scena il blocco navale: «Molti affermano che non può essere effettuato perché è simile a un atto di guerra» ha detto Giorgia Meloni all’inizio di agosto in un’intervista a Rtl e ha aggiunto «perché l’Ue non ha mai tentato di negoziare con la Libia per accettare di interrompere le partenze?».Parole controverse e inesatte su cui ha puntualizzato persino un candidato di Fratelli d’Italia, l’ex magistrato Carlo Nordio, che Giorgia Meloni già pensa nelle vesti di ministro della Giustizia: «È chiaro che blocco navale inteso come cintura di navi da guerra nel Mediterraneo è impraticabile – ha detto Nordio –. Blocco navale è un’espressione politica, cioè durante le elezioni si usano queste affermazioni impattanti». Nordio sconfessa dunque la leader del partito che lo vede candidato e ammette che, certo, dire «blocco navale» è uno slogan inattuabile ma è così che funziona la campagna elettorale: esagerando.Il blocco navale ai sensi del diritto internazionale significa una cosa specifica, è un’istituzione regolata dal diritto di guerra e non può essere attivato in modo unilaterale da uno Stato se non per legittima difesa, cioè in caso di aggressione o conflitto. Niente a che fare, quindi, con il contrasto o la gestione dei fenomeni migratori.L’allarme dei giuristiQuello che propone il partito di Giorgia Meloni, però, è cosa diversa, cioè una missione militare gestita a livello europeo e in accordo con le autorità libiche che impedisca a gommoni e barconi di lasciare il Nordafrica. Un’interdizione che però, come sottolineato da giuristi e organizzazioni umanitarie, violerebbe le norme internazionali, prima tra tutte la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che garantisce a ogni individuo il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. «Ogni individuo – recita l’articolo 13 – ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese».Il blocco navale non è una novità della campagna estiva 2022. In un documento pubblicato lo scorso anno, Fratelli d’Italia illustrava le strategie di attuazione della proposta, e i dovuti distinguo: non sono respingimenti, si legge in apertura, perché questi avvengono in mare aperto. Segue la reprimenda all’Europa: gli accordi con le parti terze si sono già fatti, si facciano ancora «è necessario destinare alla Libia lo stesso importo versato dall’Unione Europea alla Turchia per controllare il flusso di migranti». Per intenderci: sei miliardi di euro in sei anni.Aggiunge Nordio, commentando la proposta del partito, che l’altro esempio a cui ispirarsi, oltre all’accordo tra Europa e Turchia, è quello del Memorandum del 2017: «La soluzione, ha detto l’ex magistrato in un’intervista a La7, è mettersi d’accordo con gli Stati rivieraschi. Quando c’era Minniti questa cosa è stata fatta bene». L’accordo tra Turchia ed Europa del 2016, dunque, e il contestatissimo Memorandum d’intesa stretto con le autorità libiche nel 2017 dal governo Gentiloni. Sarebbero questi i precedenti a cui guarda Fratelli d’Italia. A sei anni di distanza dall’attuazione di quegli accordi, le conseguenze sono ormai tristemente note: migliaia di persone vivono in condizioni disumane negli hotspot delle isole greche in attesa che la loro richiesta d’asilo venga valutata e in caso di rigetto vengono riportate indietro in Turchia, e altre migliaia che, una volta costrette dalla Guardia costiera libica a tornare indietro sulle coste nordafricane, spariscono, tornando a essere oggetto di soprusi, torture e ricatti, o destinati sine die in uno dei centri di detenzione gestiti dalle istituzioni libiche.Anche per ovviare questo problema Fratelli d’Italia avrebbe una proposta, cioè la «creazione di hotspot nei territori extra-europei, gestiti dall’Ue, per valutare le richieste d’asilo e distribuzione equa solo degli aventi diritto nei 27 Paesi membri».Le carceri illegaliGli hotspot per la verità ci sono già, e la storia degli ultimi anni dimostra che non hanno funzionato. Dal 2017, le agenzie della Nazioni Unite – l’Unhcr e l’Oim prime tra tutti – hanno ripetutamente dichiarato di non considerare la Libia un porto sicuro, rilasciando dichiarazioni congiunte di questo tono: «È necessario compiere ogni sforzo per impedire che le persone soccorse nel Mediterraneo siano fatte sbarcare di nuovo in Libia, Paese che non può essere considerato porto sicuro». Dichiarazioni arrivate dopo che i centri di detenzione ufficiali (quelli gestiti dai governi libici e finanziati da noi, per intenderci) erano stati colpiti dai droni del generale Haftar che avevano ucciso 50 persone migranti, quelle stesse che nei centri avrebbero dovuto essere protette, o dopo che le milizie sparavano per le strade della capitale libica di fronte al Gdf (Gathering and Departure Facility), cioè al centro di smistamento che l’Unhcr gestiva per fare esattamente quello che oggi chiede Giorgia Meloni, prendersi cura delle persone vulnerabili, vagliare il loro status di rifugiato in vista dei voli di ricollocamento. Peccato però che anche i centri gestiti dalle Nazioni Unite erano diventati oggetto di interesse delle milizie libiche che li avevano di fatto trasformati in altri centri di detenzione. Tanto che alla fine la struttura gestita dall’Unhcr è stata chiusa e lo staff internazionale spostato a Tunisi.Anche sull’accesso ai centri di detenzione, le Nazioni Unite sono chiare da anni. I numeri ufficiali dicono che i centri siano passati da trenta a undici, ma questo – sottolineano agenzie internazionali ed esperti – non significa che la condizione delle strutture sia migliorata, ma che siano aumentati i centri di detenzione illegali gestiti direttamente dalle milizie e dunque inaccessibili. A parlare, di nuovo, sono i numeri. Delle persone riportate indietro dalla Guardia costiera libica, migliaia spariscono dai radar una volta arrivati in porto. «Scompaiono» dicono funzionari dell’organizzazione mondiale per le migrazioni da anni. E in questa parola, «scomparsi», ci sono molte diverse e tragiche possibilità. Possono essere scappati in città, cercando ospitalità in abitazioni occupate da connazionali esponendosi al rischio di arresti arbitrari o possono essere stati prelevati, rapiti a fini estorsivi dalle milizie locali e destinati a strutture clandestine, prigioni in cui nessuna agenzia delle Nazioni Unite può entrare, dunque nessuno può denunciarne le condizioni.A maggio Amnesty International ha pubblicato un rapporto sullo stato delle carceri libiche. A cambiare rispetto alle decine di report degli ultimi anni, solo i nomi delle milizie. «L’impunità radicata – scrivono i ricercatori – ha incoraggiato la milizia dell’Autorità di sostegno alla stabilità (Ssa) finanziata dallo stato a commettere omicidi illegali, detenzioni arbitrarie, intercettazioni e successive detenzioni arbitrarie di migranti e rifugiati, torture, lavoro forzato e altre scioccanti violazioni dei diritti umani». Oggi al centro del traffico di uomini c’è la Ssa, un’unità creata con decreto del governo nel gennaio 2021, e comandata da uno dei leader della milizia più potenti di Tripoli, Abdel Ghani al-Kikli, noto come “Gheniwa”, nominato nonostante la storia ben documentata di crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle milizie sotto il suo comando. Nominato dalle medesime istituzioni con cui i governi passati hanno trattato e vorrebbero trattare quelli futuri per impedire alle persone migranti di partire.L’alibi dell’OnuI rappresentanti del ministero dell’Interno a Tripoli hanno confermato ad Amnesty International che l’unità Ssa intercetta rifugiati e migranti in mare e li porta nei centri di detenzione sotto il loro controllo e hanno ribadito che il ministero non ha controllo sulle operazioni perché il gruppo risponde al primo ministro, non al ministro dell’Interno. «Alla domanda su quale base giuridica la Ssa fosse stata coinvolta nelle operazioni di intercettazione, i rappresentanti del ministero dell’Interno hanno affermato di non saperlo» scrive Amnesty. Che aggiunge: «La Ssa non condivide informazioni sul numero di detenuti né consente l’accesso a organizzazioni indipendenti». A dimostrazione ulteriore che nonostante gli accordi, i fondi, i finanziamenti alle istituzioni libiche, le condizioni nei centri continuano a essere inaccettabili e che la detenzione non è un deterrente. Anzi, aumenta la determinazione a fuggire dalla Libia in ogni modo possibile. Cioè l’unico: via mare.La presenza delle agenzie delle Nazioni Unite è stata usata in questi anni come alibi da ogni governo. «Della sicurezza dei salvati si occuperanno le Nazioni Unite» dicevano tutti, da destra e sinistra mentre le medesime Nazioni Unite continuavano a ripetere che fosse inaccettabile riportare in Libia i migranti. L’alibi era chiaro allora ed è chiaro oggi: se ci sono Oim e Unhcr sul terreno vuol dire che la situazione è migliorabile. Ma la situazione non è migliorata. Le agenzie Onu non sono – per loro stessa ammissione – in condizione di garantire la sicurezza delle persone sbarcate in Libia dalla Guardia costiera, le strutture sono nelle condizioni in cui sono sempre state, cambiare le finestre o dare una mano di pittura a un centro detentivo non ha significato risolvere il problema.Ostaggi delle milizieIl problema da un lato è la legge: finché non si attiva un processo trasparente di ripensamento del sistema giuridico libico, basato sulle fondamenta dei diritti umani, le persone migranti continueranno a essere portate indietro in un Paese che li obbliga a una detenzione sine die, in cui sono ostaggio di milizie, e in cui non è possibile per nessun organo internazionale tutelare la loro incolumità.«Possiamo sicuramente discuterne con le autorità libiche», ha detto Giorgia Meloni, parlando dei suoi possibili futuri accordi. Peccato però che al momento sia poco chiaro chi siano le autorità libiche con cui parlare, visto che nel Paese ci sono di nuovo due governi, stanno saltando i vertici di tutte le istituzioni nazionali, le milizie sono tornate a spararsi lungo le strade della capitale e i manifestanti hanno assaltato le sedi parlamentari in Cirenaica.L’altro problema è da questa parte del Mediterraneo. Fatta eccezione per la parentesi dell’operazione Mare Nostrum avviata dall’allora governo Letta dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 per salvare vite umane (furono 190 mila le persone tratte in salvo), gli ultimi anni sono stati segnati dalla politica del contenimento con scarsi se non pessimi risultati. A poco è servito rimuovere le risorse europee di ricerca e soccorso sperando di eliminare un fattore considerato erroneamente attrattivo, cioè la presenza di navi in mare. Decisione che si è rivelata letale e non efficace, non ha diminuito le partenze e ha reso solo più pericolose le traversate. A poco sono serviti anche i decreti sicurezza e la politica dei porti chiusi della stagione salviniana.Il Mediterraneo centrale era e resta la rotta migratoria più pericolosa del mondo. Ventimila persone sono morte o scomparse in mare dal 2014, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Eppure le partenze non si fermano. Nei primi otto mesi di quest’anno sono arrivate 62 mila persone rispetto ai 67 mila dello scorso anno (erano state 34 mila nel 2020). E questo perché da vent’anni si cerca di abbassare i numeri anziché capire da dove arriva il problema.