ItaliaOggi, 10 settembre 2022
Orsi & tori
Un sguardo dal ponte, da quello di Brooklyn come nel famoso film tratto dalla pièce di Arthur Miller, o dal Golden Gate di San Francisco, da qualunque ponte si guardino gli Usa, un dato unitario balza agli occhi: un dollaro al livello più alto da 20 anni rispetto non solo all’euro ma a quasi tutte le monete con la sola eccezione di quelle dei paesi esportatore di energia. Eh sì, non è l’unica ragione di questa forza del dollaro, ma la più speciale è proprio il fatto che gli Usa sono diventati grandi esportatori di energia.
È dal 2014 che gli Usa esportano gas e petrolio grazie alla tecnologia dello shale, cioè lo sfruttamento delle rocce scistose da cui si ottenere petrolio e gas.
Questa produzione ha rivoluzionato il mercato creando all’inizio un eccesso di offerta che aveva fatto crollare a livello globale il prezzo del greggio. Fu il presidente Barak Obama ad autorizzare la prima esportazione di gas
all’estero. E i paesi petroliferi (inclusa la Russia) per non fare scendere ancora di più il prezzo e anzi per recuperare un livello accettabile decisero di tagliare la produzione di 1,8 milioni di barili al giorno.
Oggi gli Usa godono di questa grande capacità produttiva e naturalmente la moneta ne risente positivamente, proprio mentre buona parte del mondo occidentale è nella morsa della crisi provocata dalla guerra della Russia in Ucraina.
Ma la capacità di esportare energia è una delle ragioni del boom del dollaro, non la sola. Vedere l’euro, ma anche la sterlina e lo yuan che sono stati surclassati nel valore rispetto al dollaro impone di comprenderne le ragioni fondamentali, appunto oltre la capacità di esportare energia.
Peso significativo del grande balzo del dollaro lo ha la differenza nella politica monetaria degli Usa rispetto agli altri paesi che ora hanno il valore delle monete in caduta. È dalla fine del 2021 che la Federal Reserve ha alzato i tassi di interesse in misura elevata con la motivazione di combattere l’inflazione, che effettivamente era elevata; ma alzando i tassi automaticamente è stata data una spinta verso l’alto al dollaro e i titoli in dollari sono cresciuti significativamente di valore. E il dollaro è diventato una moneta ad alto rendimento. Un mare di denari è affluito sul dollaro e questa massa di capitali da tutto il mondo hanno spinto sempre più in alto la moneta americana.
E’ evidente che un dollaro fortissimo rende meno competitivi i prodotti americani, ma ogni moneta ha il suo rovescio e in economia e finanza a ogni azione corrisponde una reazione opposta. Tuttavia per gli Usa i vantaggi sono superiori agli svantaggi. Per esempio per la quantità di denaro che appunto affluisce sul dollaro alla ricerca dei rendimenti elevati garantiti dal tasso fissato dalla Federal Reserve. E a soffrire il deflusso verso la moneta Usa dei capitali nazionali sono i paesi più deboli. Le finanze dei paesi emergenti vengono schiacciate. Nel mondo in via di sviluppo finora ha retto bene solo l’India per la dimensione della sua economia, mentre i paesi più piccoli, magari e per di più super indebitati in dollari, come alcuni asiatici, hanno le economie in pesante crollo.
Per decenni il dollaro è stato la valuta degli scambi internazionali, se ora lo è di meno dipende non soltanto dall’enorme rialzo che ha avuto in pochi mesi. Un inizio di delegittimazione del dollaro come moneta principe per gli scambi commerciali è stata provocata nel 2014 dalla decisione del presidente Barak Obama di porre sanzioni alla Russia per la guerra in Crimea. Quella mossa alla prova dei fatti è stata strategicamente dannosa perché ha creato il riavvicinamento fra Russia e Cina, i cui rapporti erano sempre stati difficili o pessimi come succede fra paesi confinanti per centinaia di km. E l’apice dello scontro era avvenuto negli anni del governo di Deng Xiaoping che considerava Nikita Krusciov un vero criminale, come dichiarò a chiare lettere a Oriana Fallaci nell’intervista dell’inizio degli anni 80.
La prima decisione che Cina e Russia presero fu proprio quella di sostituire per le loro transazioni il dollaro, pagando ognuno con la propria valuta, il rublo e lo yuan.
Per ora quella mossa non ha pregiudicato gravemente il dollaro come moneta per le transazioni commerciali, ma certo l’acuirsi del conflitto in essere per la guerra della Russia in Ucraina avrebbe potuto far perdere terreno al dollaro se non fosse appunto che gli Usa sono paese esportatore di energia e quindi in condizione di poter trarre vantaggio rispetto all’Europa e al Giappone sul piano valutario per la crisi energetica che si è creata.
Ma c’è l’altra faccia positiva della enorme crescita di valore del dollaro soprattutto per i paesi che esportano negli Usa e comunque nell’area del dollaro. Il super valore delle moneta americana crea infatti grandi vantaggi competitivi ai prodotti dei paesi esportatori: sono infatti a miglior prezzo per gli acquirenti americani che pagano in dollari. Anche per questo motivo, oggi più di ieri, il sistema globale degli scambi commerciali regge, esprimendo in tal modo anche la capacità di resistenza degli Stati Uniti.
La minaccia per il sistema globale basato sul dollaro viene dai sistemi di pagamento e di valuta digitali gestiti, per esempio, dalla Cina. Secondo una stima di The Economist, lo e-yuan digitale cinese, ha già ora un numero di utenti altissimo: oltre 260 milioni. È non è temerario ipotizzare che la Cina possa gestire la propria rete di pagamenti mantenendo il controllo di quei capitali che possono garantire la stabilità. E nel momento nel quale la Cina arriverà a un sistema proprio, è evidente che le sue società potranno essere immuni da qualsiasi sanzione americana.
Le nuove reti possono minacciare il dollaro come moneta globale di scambio nel momento nel quale diventano transfrontaliere alternative al sistema che poggia sul dollaro.
In molta parte del secolo scorso a dominare i mercati è stata la sterlina. Valuta di riserva mondiale o unità internazionale di conto e riserva di valore e mezzo di pagamento. Fino a che non è arrivata appunto l’era del dollaro. Il futuro potrebbe vedere, grazie alle tecnologie, variazioni passando dal dollaro ad altre valute di riserva, con i paesi che hanno autonomia nella fissazione dei criteri di pagamento. Senza per forza che sia messa in dubbio in assoluto il ruolo del dollaro.
Per questa o altre ragioni il dollaro si indebolirà? Perché ciò avvenga, a parte l’eliminazione dei fattori che gli hanno fatto toccare ora il massimo storico da 20 anni, occorre che ci siano prospettive di crescita anche in altre parti del mondo; secondo fattore di un eventuale cedimento, la diminuzione della pressione sui prezzi e sugli stipendi negli Usa. La motivazione principale della Fed per fissare tassi tanto alti è appunto che ci sono tassi di inflazione altrettanto alti. Se avvenisse una normalizzazione dei tassi di inflazione la Fed potrebbe allentare il freno monetario, realizzandosi così un indebolimento del dollaro. Ma un dollaro più debole ha comunque bisogno di buone notizie globali e in particolare sullo status dell’energia globale. Se ciò non accadrà , è difficile che l’Europa possa colmare il divario di crescita in essere negli Stati Uniti.
Conclusione: al di là di interventi che possano essere attuati dalle banche centrali, il buon andamento dell’Europa dipende dall’Europa stessa, che deve colmare il divario di crescita in essere negli Stati Uniti.
A giudizio di non pochi analisti quindi, se si guarda il mondo dal lato valutario dove il dollaro è tornato re assoluto, gli Usa, insieme a errori in altri campi, stanno conducendo una battaglia vincente sul resto del mondo proprio grazie a quella scelta della Fed che con il rialzo dei tassi ha fatto da additivo a ciò che era già avvenuto sulla conquista non solo dell’autonomia energetica ma anche della possibilità di esportare energia. È anche per questo che mentre le sanzioni alla Russia rischiano di far vivere il prossimo inverno al freddo all’Europa e a molti altri paesi, per gli Usa sono un vantaggio: quantomeno il vantaggio di poter vendere la sua energia a prezzi superiori a una fase di mercato ordinaria.
Non sarebbe quindi secondario per l’Europa riuscire a dare un valore a cosa sta accadendo, cioè all’essere protagonisti delle sanzioni contro la Russia. Domandarsi, almeno, come ciò è utile alla politica estera degli Usa, senza per la Ue avere i vantaggi che il rincaro dell’energia genera per gli stessi Stati Uniti e in particolare per la maggiore forza finanziaria che il dollaro ha conquistato non solo in seguito al rialzo dei tassi della Fed ma proprio anche per la disponibilità di energia da esportare nel contesto delle sanzioni.
La controprova della debolezza dell’Ue e della sua moneta, l’euro, la si è avuta nei 20 minuti in cui, giovedì 8, la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha annunciato l’aumento dello 0,75 dei tassi ufficiali europei. Invece di recuperare, l’euro ha perso di colpo lo 0,83%. Un segno bruttissimo che ha due cause precise:
1) insieme a questo aumento Lagarde ne ha preannunciati altri 2 in più fino anche a 4 aumenti, che non denotano né una strategia forte di lotta all’inflazione, né un obbiettivo di recuperare sul dollaro;
2) la mossa conferma che la Bce ha al suo interno un forte dibattito, dove al momento hanno prevalso, ma non in maniera decisiva, i monetaristi rappresentati soprattutto dai paesi frugali e dalla Germania. Quindi una politica di compromesso che nel contesto attuale è perdente. E la discriminante maggiore fra Usa e Ue non è solo e soltanto la differenza fra chi ha energia e chi è sotto schiaffo dalla Russia, ma anche il fatto che in Usa l’economia viaggia, almeno per ora, a forte velocità, mentre nella Ue la recessione è già percepibile.
Tutto ciò conferma che Lagarde non ha imparato molto da Mario Draghi, che si impose ogni volta, con grande lucidità, ai tedeschi; ma soprattutto la Lagarde dovrebbe tenere ora conto anche delle politiche della Nato, che è sì schieramento militare ma con enorme rilevanza economica sui paesi partecipanti. Infatti, ci sono profonde differenze fra la Ue e gli Usa. Differenze determinate dalle fonti di energia, il cui valore è sempre più strategico.
È temerario che la Ue chieda agli Usa di vendere ai suoi paesi membri e solo a loro, tutta l’energia che essa esporta?
Si potrà replicare che a vendere gas e petrolio estratto dallo shale non è il governo degli Stati Uniti ma le aziende private che possiedono i giacimenti. Ma se il presidente Usa Joe Biden ha suonato l’adunata di tutti i componenti Nato per varare le sanzioni contro la Russia e la Ue ha risposto di sì, dovrebbe essere naturale che le esportazioni di gas o petrolio da parte degli Usa siano indirizzate verso l’Europa e a prezzi non da speculazione. Se fossimo solo in una guerra con le armi che uccidono e non anche in una guerra in cui sono le scelte economico-politiche che incidano pesantemente, allora la Ue potrebbe anche fare a meno di chiedere per i suoi membri l’energia americana a prezzi moderati. Naturalmente non si avrebbe comunque il soddisfacimento delle necessità energetiche della Ue, ma almeno si potrebbe apprezzare una effettiva solidarietà, visto che non c’è stato neppure coordinamento fra Usa e Ue sul piano monetario e dei tassi di interesse. A determinare tutto ciò è una sorta di asimmetria fra la Nato e le due entità principali del mondo occidentale e cioè gli Usa e la Ue. Senza un effettivo coordinamento a tutti i livelli ci sanno sempre guai gravi sul piano economico. Ma è realistico che gli Usa rinuncino ad avere comunque il primato assoluto per poter decidere autonomamente nel solo loro interesse?