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 2022  settembre 10 Sabato calendario

Teresa Cremisi parla di Adelphi

Quel che colpisce subito ascoltando Teresa Cremisi è che, pur avendo occupato ruoli direttivi in grandi case editrici internazionali come Gallimard e Flammarion, non ha mai abbandonato l’idea dell’editoria come attività artigianale. In ogni sua parola c’è la convinzione di un lavoro fatto di piccole cose quotidiane, decisioni minime, competenze acquisite nel tempo con cura e pazienza. Ricorda sorridendo i vent’anni alla Garzanti, dove ha cominciato come lessicografa dei dizionari percorrendo una brillante carriera fino a raggiungere la direzione generale: «Abbiamo sofferto molto con Livio, ma ci siamo anche divertiti», dice pensando all’amicizia con Piero Gelli, per tanti anni direttore editoriale. Navigazione è la metafora migliore per definire il suo viaggio nell’editoria: ed è la stessa che utilizza nel suo libro del 2015, La Triomphante, in cui racconta una vita avventurosa, vissuta al crocevia tra tante lingue e culture, che inizia dalla nascita ad Alessandria d’Egitto con un padre imprenditore e una madre scultrice spagnola e anglo-indiana. Alessandria era, allora, un punto cardine, «confluenza di tutte le strade». E forse la stessa immagine di confluenza si adatta bene anche all’idea di editoria maturata in molti anni da questa signora elegante e riservata, amica di Milan Kundera, di Michel Houellebecq e di Yasmina Reza. E amica anche di Roberto Calasso, il patron di Adelphi che l’ha voluta venti anni fa tra i membri del consiglio d’amministrazione della casa editrice, di cui ora è presidente.
Che cosa le hanno insegnato esperienze tanto diverse, in Italia e in Francia? Qual è stata la più complicata?
«La più avventurosa fu la mia partenza da Milano nel 1989 per diventare direttore editoriale di Gallimard a Parigi. Era un momento tragico per la storia della casa editrice, che si trovava a gestire la successione di Claude, figlio del fondatore Gaston: i figli erano quattro, la situazione di passaggio era molto delicata, la Gallimard si era staccata da Hachette e aveva appena fondato una propria società di distribuzione assumendo una dimensione industriale. Claude aveva scelto come successore il terzo dei suoi figli, Antoine, smentendo la convinzione acquisita che fosse il maggiore, Christian, già attivo in casa editrice, a diventare il nuovo presidente e direttore generale. Insomma, erano in corso pesanti lotte interne, perché Antoine fu contestato da fratelli e sorelle per quasi due anni. In questo contesto generale molto complicato presi i miei bagagli e partii per Parigi, ecco qua».
Difficoltà nel gestire i rapporti interni?
«Non solo. La casa editrice attraversava cambiamenti strutturali molto profondi e una grave crisi finanziaria, per cui tutti dicevano che la Gallimard era finita, che Antoine non aveva le spalle abbastanza larghe. Molti erano sicuri che la casa editrice sarebbe stata ceduta e smembrata… Insomma, fu un periodo tumultuoso e io poco più che quarantenne, dopo più di vent’anni da Garzanti, andai a rischiare la pelle in Francia, cosa di cui peraltro avevo voglia… Sono stati anni difficili e appassionanti».
Perché Antoine Gallimard scelse proprio lei?
«C’era con lui un’amicizia assidua anche se lontana, ci eravamo sposati negli stessi anni, avevamo figli coetanei, lui aveva preso la responsabilità della collana tascabile Folio, su cui mi chiedeva consigli quando lavoravo da Garzanti. Dunque, chiamando me, sceglieva una persona amica che non faceva parte di nessun clan».
Niente a che vedere con la situazione di Adelphi dopo la morte di Calasso, nonostante qualche recente polemica.
«No, per carità. Un conto sono le lotte tra quattro fratelli, tre dei quali si sentono estromessi da un’azienda in crisi, lacerata da divisioni interne, scossa da vere e proprie faide distruttive. E un conto è la situazione dell’Adelphi che non solo è sana ma sanissima, più piccola e meravigliosamente gestita, in cui il lavoro editoriale procede con tranquillità e il cui cda è composto da persone scelte con attenzione somma da Calasso – le quali hanno poi recentemente cooptato Katharina Fröhlich in rappresentanza dei figli Josephine e Tancredi».
Quali sono le differenze tra il mondo editoriale francese e quello italiano?
«Sono mercati molto diversi: pur con una popolazione molto simile, quello francese è il doppio di quello italiano, vende libri per 4,5 miliardi, in Italia non si arriva ai due. Quanto all’articolazione interna, l’editoria italiana è un gioiello con case editrici e collane di altissima qualità per i contenuti, per la grafica, per il livello della cura redazionale e delle traduzioni. E tra questi gioielli Adelphi è tra le più caratterizzate: da più di sessant’anni ha mantenuto l’immagine voluta dai fondatori Roberto Bazlen e Luciano Foà, coltivata poi da Calasso e dai suoi collaboratori con assoluto rigore nelle scelte, nelle copertine, nello stile».
Che cos’era lo stile Calasso?
«Quando Roberto Calasso veniva a Parigi, ci precipitavamo in certi musei e lui faceva incetta di cartoline: io non riuscivo nemmeno a staccarlo per andare a mangiare. Ogni cartolina sarebbe stata forse l’immagine di un libro futuro: questa connessione tra l’immagine e il contenuto è strepitosa in Calasso e ha lasciato un’eredità che continua».
A quando risale la sua amicizia con Calasso?
«Risale alla mia giovinezza. Roberto non amava Garzanti, per questo quando partii per Parigi applaudì. Tra l’altro, diventai il suo editor per Gallimard. Abbiamo avuto un’amicizia e un rapporto professionale del tutto libero e indipendente, ognuno con il proprio gusto. Roberto era curiosissimo di tutto: Kundera come sta? Perché ha fatto così? Cerca di capire che cosa succede… Perché Andrew Wylie vuole questa cosa? E io facevo lo stesso con lui, perché l’editoria è fatta di piccole cose quotidiane che richiedono molta concentrazione, cose minuscole che creano un gusto, un’idea, un catalogo e ovviamente tanta dispersione».
Perché dispersione?
«Spesso ci si impegna allo spasimo e le cose si risolvono in niente per dei dettagli. Pochi mestieri hanno lo stesso dispendio di intelligenza, talento e attenzione. In questo Roberto era l’editore più editore che io abbia mai conosciuto. Tutto veniva filtrato dalla lente del suo gusto personale ma anche da una valutazione micidiale delle conseguenze di una scelta o di un’altra. Nel gesto di pubblicare o di non pubblicare un libro entrava tutto: sentimenti, simpatie, affinità, odi, amori, emozioni, era un modo passionale di gestire il mestiere. Per Roberto, essere editore è mestiere in cui si rischia ogni volta un po’ della propria identità intellettuale. È un modo molto alto di vivere l’editoria e io, al confronto, in tanti anni l’ho praticata in modi più banali».
Fatto sta che l’ha voluta nel cda. Ci sono stati momenti difficili?
«Calasso voleva che fosse un gruppo di amici (quando entrai c’erano già Francesco Pellizzi ed Elisabetta Zevi, entrambi azionisti e molto coinvolti nella vita di Adelphi). Ci sono stati anche momenti difficili, come quando perse la maggioranza perché Rizzoli nel 2006 divenne l’azionista principale e passò dal 48% a più del 58%. Fu un momento tremendo, ma è stato forte Roberto ed è stata molto rispettosa la Rcs, che gli lasciò la presidenza e si impegnò a non turbare mai la vita editoriale. Poco prima, Vittorio Colao mi aveva chiesto di assumere la presidenza di Flammarion, che Rcs acquisì al 100% dalla famiglia; dunque, lasciai Gallimard e rimasi per Calasso l’amica di sempre».
Ereditare un’impresa impostata in quel modo è una sfida pazzesca. Non trova?
«Io che sono quasi una vecchia signora non avrei mai pensato di essere chiamata alla presidenza, ma in quel momento ho pensato di essere il minimo comun denominatore tra tutti. Per di più gli svantaggi erano i vantaggi: non sono erede di nessuno, non sono moglie, non sono figlia, non ho diritti, non ho azioni, non ho null’altro che un po’ di esperienza, una vecchia amicizia e la conoscenza della casa editrice. Per questo ho accettato».
Era il 2 settembre 2021, un anno fa: il consiglio nominò Roberto Colajanni amministratore delegato e direttore editoriale all’unanimità.
«Tre mesi prima di morire, nell’aprile 2021, Calasso modificò la struttura del consiglio passando da cinque a sette consiglieri. Entrarono Claudio Rugafiori, amico di sempre e storico collaboratore di Adelphi, una delle figure chiave per la formazione della casa editrice, e Roberto Colajanni, suo nipote, a cui era molto legato e con il quale aveva deciso di lavorare e di condividere per più di dieci anni scelte quotidiane. Era una scelta chiara, un modo per legare il passato e il futuro dell’Adelphi. Grande era la sua fiducia nell’intuizione editoriale di Colajanni. Il testamento ha confermato la sua indicazione. Penso sia stata una decisione giusta e lungimirante».
C’è davvero, come è stato osservato, il pericolo che l’Adelphi diventi un museo?
«Il primo a esprimersi su questo era proprio Calasso che ne parlò con alcuni amici. Se una casa editrice diventa un museo significa che è morta. Ma per fortuna non è possibile per chi conosce questo mestiere: l’editoria è un equilibrio tra le cose in cui si crede e che si desidera pubblicare, le cose a cui si resterà fedeli per sempre e un’iniezione continua di sorprese, che magari non corrispondono al progetto ma lo integrano, dando l’effervescenza necessaria. Roberto era il primo a saperlo».
Per esempio?
«Gli esempi sono innumerevoli. Quarant’anni fa, decise di pubblicare Kundera, che era già uscito con un successo moderato da Bompiani e da Mondadori. Prese la sua valigetta, arrivò a Parigi, gli disse: “Guardi io la voglio pubblicare in Italia, adesso facciamo così così così… e vedrà che ce la faremo”. In tempi più recenti, lo stesso è accaduto con Emmanuel Carrère e con Yasmina Reza… L’editoria non ha regole precise, non è una ricetta di cucina in cui si mette più o meno burro, più o meno sale, ma richiede la capacità di rimanere svegli al mondo, cogliendo tutto ciò che è compatibile e che può aggiungere un brivido al catalogo. C’è anche l’imprevedibile… Naturalmente si sbaglia, perché l’editoria è anche un catalogo di errori. Ma questa è l’impronta dell’editore».
L’impronta dell’editore è una felice espressione di Calasso. Ma davvero non c’è il rischio di confidare troppo in un catalogo storico meraviglioso senza pensare ad altro?
«Non è possibile, perché la vita spinge e costringe a fare delle scelte. Abbiamo avuto un semestre eccellente. Diversi libri e nuovi autori sono stati acquisiti, i loro nomi verranno fuori al momento opportuno. Con Fabio Bacà non abbiamo seguito l’idea di Calasso che rifiutava lo Strega: ci siamo impegnati e l’abbiamo sostenuto in tutti i modi. Oppure prendiamo un altro esempio, apparentemente più banale, quello di Anna Politkovskaja, che era già nel catalogo. Nel contesto della guerra in Ucraina, l’editore ha deciso di ristampare La Russia di Putin. Bisognava scegliere il momento giusto, la veste giusta, la copertina giusta, il prezzo, soprattutto la tiratura».
Risultato?
«Anche riproporre un titolo del catalogo richiede una messa in scena adeguata: infatti ne abbiamo vendute non mille ma 75 mila copie. E quello che ha fatto Adelphi su quel titolo non l’ha fatto nessun editore in Europa. Troppo facile dire che era nel catalogo. Nulla in questo dannato mestiere è automatico. Ci vuole un’inventività tanto difficile quanto non riconoscibile a prima vista. Bisogna chiedersi se e quando puoi rischiare».
A volte si rischia di più stampando libri da mille copie.
«Certo. Non possiamo stampare 15 mila copie di tutto ciò che ci piace. La casa editrice è un essere vivente in cui devono funzionare le gambe, gli occhi, le mani, il tutto in modo armonico. Il lavoro in Adelphi è diverso da quello di altre case editrici più composite, quelle in cui si segue il successo e in cui c’è il bestseller annunciato che dà stress magari senza risultati. C’è una frase che dice: “Niente di più triste di un bestseller che non si vende”».
A proposito di novità, pubblicherete voi gli inediti di Céline di cui tanto si è parlato?
«Sì. Cominciando da Guerre, che fu scritto nel ’32-’33 e si inserisce tra il Voyage e Mort à crédit. In Francia ha venduto 210 mila copie, un risultato difficilmente replicabile in Italia. Céline è un genio della lingua. Roberto lo amava molto, aveva già pubblicato testi minori, lo considerava un autore essenziale».
Che cosa intendeva quando diceva «essenziale»?
«Non saprei esattamente… Per quel che mi riguarda, ho sempre avuto certezze più fluttuanti (ride). Ma quello era un aggettivo che ripeteva tante volte in ogni telefonata. Una cosa che ho sempre invidiato a Roberto è la libertà nello scegliere un libro pur sapendo che avrebbe venduto 12 copie e che però per lui era “essenziale”».