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 2022  settembre 09 Venerdì calendario

Ritratti di Elisabetta II

Vittorio Sabadin, Il Messaggero
La regina Elisabetta II del Regno Unito di Inghilterra, Scozia e Irlanda del Nord è morta ieri al castello di Balmoral, in Scozia, dopo 70 anni di regno, il più lungo della storia britannica. Aveva 96 anni. Suo figlio Carlo è il nuovo re, con il nome di Carlo III, e sua moglie Camilla è ora regina consorte. Martedì scorso, nelle foto che la ritraevano mentre dava l’incarico alla nuova premier Liz Truss, era apparsa dimagrita e debole. Si reggeva a un bastone, ma il sorriso era quello di sempre, allegro e sereno. Non sappiamo quali siano state le cause dell’improvviso aggravamento delle sue condizioni. Voci non confermate dicono che sia caduta, come accade spesso alle persone anziane con problemi di mobilità simili a quelli che l’affliggevano negli ultimi mesi.
Già nel pomeriggio si era diffusa la sensazione che la situazione stesse precipitando. I medici avevano diramato un comunicato poco dopo le 14: «A seguito di un’ulteriore valutazione questa mattina, i medici della Regina sono preoccupati per la salute di Sua Maestà e le hanno raccomandato di rimanere sotto controllo medico». La parola preoccupati, mai udita prima da parte di chi assisteva Elisabetta, si è diffusa in pochi secondi in tutto il Paese. La BBC ha interrotto i programmi e mandato in onda i suoi giornalisti vestiti a lutto, il cambio della guardia a Buckingham Palace è stato annullato e a Westminster, mentre la premier Liz Truss teneva un discorso sul blocco dei prezzi dell’energia, è entrato Nadhim Zahawi, cancelliere del ducato di Lancaster e per questo uomo vicino alla Sovrana, e aveva passato un foglio alla premier. Un altro foglio era stato consegnato poco dopo al leader dell’opposizione Keir Stramer, mentre dall’aula si levavano mormorii sempre più forti. Lo speaker della Camera dei Comuni ha poi preso la parola, dando l’annuncio dell’aggravamento delle condizioni della Regina.
Nel frattempo l’intera famiglia reale era in viaggio verso Balmoral. Carlo con la moglie Camilla, Anna, Edoardo con la moglie Sophie, Andrea. Erano in viaggio anche il principe William, non accompagnato da Kate, impegnata con i figli nel primo giorno di scuola. È arrivato anche Harry, ma senza Meghan: la coppia era già in Gran Bretagna per altri impegni. Alle 19,30, ora italiana, è stato dato l’annuncio ufficiale di una notizia che tutti avevano già intuito. Ai cancelli di Buckingham Palace, di Balmoral e di Windsor si sono radunate migliaia di persone afflitte, che portavano fiori e la testimonianza del grande affetto che avevano per la Sovrana. I funerali si terranno fra due settimane in forma solenne e avranno una partecipazione di popolo mai vista prima. Tutti i potenti della Terra verranno a renderle omaggio.
IL SORRISO
Probabilmente, nonostante la sofferenza, la Regina se ne è andata con un sorriso, felice di avere fatto quello che aveva promesso parlando alla radio il giorno che aveva compiuto 21 anni: per lunga o breve che fosse stata la sua vita, l’avrebbe interamente dedicata al servizio dei suoi sudditi e della grande famiglia imperiale alla quale apparteneva. Avrà forse pensato a suo padre Giorgio VI, al suo senso del dovere, alle cose che le spiegava quando era ancora una bambina, una bambina che un giorno sarebbe diventata regina. Suo padre ora poteva essere fiero di lei.
La vita di Elisabetta è stata molto lunga, e l’ha vissuta in modo impeccabile. L’abdicazione di Edoardo VIII, fuggito dai suoi compiti nel 1936 per amore di una divorziata americana, era stata giudicata dalla famiglia una macchia vergognosa che bisognava cercare di cancellare con l’esempio e la dedizione. Nient’altro le importava. Il senso del dovere ha così profondamente permeato il suo regno da lasciare spazio davvero a poco altro: non certo al rapporto con i figli Carlo, Anna, Andrea e Edoardo, dei quali non aveva tempo di occuparsi come ci si attenderebbe da una madre; nemmeno al rapporto con il marito Filippo, l’unico uomo che ha amato nella vita, dopo averlo conosciuto quando era solo una ragazzina, ma che ha dovuto rendere infelice in più di un’occasione, impedendogli inizialmente persino di dare il suo cognome, Mountbatten, ai propri discendenti.
IL RUOLO DI FILIPPO
Filippo è stato la sua roccia, il suo sostegno, l’unica persona al mondo che poteva trattarla come un essere umano. Quando è morto, nell’aprile dell’anno scorso, ha lasciato un vuoto incolmabile. La foto della Regina seduta da sola al funerale del marito sui banchi della St George’s Chapel di Windsor, vestita di nero e con una mascherina anti-covid nera sul volto, ha commosso il mondo e ha fornito la misura della sua immensa solitudine. Il 21 aprile scorso aveva voluto trascorrere il giorno del suo 96° compleanno nel piccolo cottage di Wood Farm a Sandringham, che Filippo aveva abitato nelle ultime settimane di vita, e nel quale c’erano ancora i suoi ricordi.
La maggior parte delle persone che oggi vivono nel Regno Unito sono nate sotto il suo regno, e la sua immagine è stata una presenza costante e rassicurante, mai divisiva, sempre consolatoria. E’ stata l’incarnazione vivente di un tipo di valori caratteristici di un periodo storico: non solo senso del dovere, ma anche vestirsi con eleganza e decoro, saper stare a tavola, essere gentili e premurosi, mai volgari, essere ospitali, frugali, rispettare le opinioni di tutti, non lamentarsi mai. E’ stata l’unica donna al mondo a non avere mai cambiato pettinatura, per dare coerenza e continuità a un’immagine stampata sui francobolli e sulle banconote. Un’immagine diventata un’icona del Paese, come il Tower Bridge, il Big Ben, gli autobus a due piani, il tè delle cinque, le pecore che pascolano sulle colline piovose.



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Bill Emmot per la Stampa
Per i cittadini del suo Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, la regina Elisabetta II ha rappresentato un senso di continuità con la storia del Paese e, più di ogni altra cosa, senso del dovere e rispettabilità incondizionate. I suoi 70 anni di regno hanno visto arrivare e passare 15 Primi ministri, compresa Liz Truss che il 6 settembre ha sostituito Boris Johnson, e possiamo affermare con discreta sicurezza che la reputazione della regina presso l’opinione pubblica britannica è sempre stata migliore e più cordiale di quella di ciascuno di loro, con la sola eccezione, forse, del suo primo Primo ministro Winston Churchill.
Per il mondo, tuttavia, la regina e la monarchia britannica da lei servita hanno rappresentato qualcosa di più profondo e grande. La continuità, certo, per il semplice fatto di essere stata una costante figura di riferimento in un panorama in continua evoluzione, ma anche un legame diretto con la storia britannica, sia in negativo sia in positivo.
L’aspetto negativo è che la sua nascita nel 1926, ma ancor più la sua ascesa al trono britannico nel 1952, avvennero durante l’impero, quando l’impero britannico era ancora senza dubbio il più grande del mondo. Infatti, Elisabetta apprese della morte di suo padre, il re Giorgio VII, e di conseguenza della sua successione al trono, mentre era in vacanza in Kenya, ai tempi una colonia britannica.
Quell’impero fu quasi del tutto smembrato e disgregato nei decenni seguenti, e il tutto culminò con il ritorno di Hong Kong sotto il regime cinese nel 1997. Eppure, ancora oggi proseguono le manifestazioni e le controversie sul lascito dell’impero: non più tardi della visita del maggio scorso in alcune ex colonie dei Caraibi, suo nipote, il principe William, si è trovato alle prese con vigorose proteste da parte di quei popoli, che chiedono risarcimenti per gli schiavi sfruttati dall’impero soprattutto durante il XVIII secolo.
A quel ricordo imperiale negativo, perpetuato perdipiù dalle onorificenze che la regina ha dovuto assegnare ufficialmente parecchie volte l’anno, e denominate per esempio “Ordine dell’Impero Britannico” (Order of the British Empire), si accompagna anche il ricordo di quanto siano decaduti durante il regno della regina Elisabetta il ruolo e il potere della Gran Bretagna nel mondo. Forse un termine più consono rispetto a decaduti è “normalizzati”, specialmente per come è cambiata e si è comportata la Gran Bretagna durante i quarant’anni della sua appartenenza a quella che oggi è l’Unione europea. Un Paese, che durante la gioventù della regina Elisabetta era stato una potenza imperiale, e che perlopiù promuoveva in esclusiva i suoi stessi interessi comandando a bacchetta le sue colonie, è diventato molto più collaborativo nei confronti degli altri grazie alla Nato, l’Ue e le varie istituzioni delle Nazioni Unite.
Purtroppo, non c’è dubbio: dietro ai desideri delle élite politiche che hanno voluto uscire dall’Ue con il referendum del 2016 e «assumere di nuovo il controllo» del Paese, come diceva lo slogan dei sostenitori della Brexit, c’era parte di quella nostalgia per l’epoca imperiale. L’opinione che la regina aveva della Brexit non è nota, ovviamente, ma nondimeno è chiaro che quel tipo di aristocrazia britannica incentrata intorno alla famiglia reale è composta da molte persone che hanno promosso e voluto la Brexit.
L’aspetto positivo del legame profondo della regina con la storia britannica, tuttavia, è che sia lei sia la monarchia simboleggiano e addirittura incarnano una forte tradizione di pragmatismo. Nulla appare più inglese della famiglia reale, eppure per più di tre secoli i nostri monarchi sono stati tutti importati dalle grandi dinastie d’Europa, prima dall’Olanda (Guglielmo III nel 1689), e poi dalle due famiglie tedesche imparentate tra loro, gli Hannover (Giorgio I nel 1714) e il casato di Sassonia-Coburgo-Gotha dal 1901, dal quale discendeva la stessa regina Elisabetta.
All’importazione da parte del parlamento inglese di dinastie europee che occupassero il trono si accompagnò anche una costante erosione dei poteri politici e legislativi della monarchia. Molto semplicemente, fin dalla sua ascesa al trono nel 1952 la regina Elisabetta comprese che il suo dovere primario era restare in silenzio in merito a qualsiasi tipo di controversia politica fosse sorta. In questo non vi era nulla di nuovo: un mio illustre predecessore alla direzione dell’"Economist”, lo scrittore Walter Bagehot, nel suo libro del 1867 “The English Constitution” scrisse che il ruolo del monarca era «essere consultato, incoraggiare, mettere in guardia». E niente più di questo.
Negli anni Cinquanta, il diritto a incoraggiare e mettere in guardia era perlopiù scomparso. La regina era ancora “consultata”, per mezzo di visite del primo ministro programmate a intervalli regolari, ma non risulta ufficialmente che quelle conversazioni abbiano mai influenzato la politica di governo, anche se negli ultimi decenni la regina Elisabetta aveva un’esperienza in tema di questioni nazionali e globali di gran lunga superiore a quella di qualsiasi suo primo ministro.
Sia lei sia loro sapevano che il ruolo della monarca era quello di rappresentare la nazione e, in periodi difficili, offrire conforto, senza però fare nulla di neanche lontanamente politico come fanno altri capi di Stato. Questo rappresenta un bel problema nella Gran Bretagna moderna nella quale primi ministri come Boris Johnson sono riusciti a insidiare le regole e le usanze tradizionali finalizzate a tenere a freno il loro potere esecutivo. Infatti, laddove gli altri capi di Stato possono agire da controllori o contrappesi, in Gran Bretagna noi abbiamo un vuoto costituzionale.
Quel ruolo – essere un simbolo puramente ligio al dovere – continuerà con il principe Carlo, ma con un ascendente meno globale. Quando la regina Elisabetta ascese al trono britannico, infatti, divenne capo di Stato di trenta altri Paesi e più. Durante il suo regno, 17 di questi hanno scelto di sostituire il monarca britannico con un proprio capo di Stato, ultima l’isola Barbados nel 2021. Con la successione al trono del principe Carlo, è probabile che molti dei 14 Paesi rimasti, ex colonie imperiali sulle quali il re regnerà nominalmente e che comprendono Canada e Australia, coglieranno l’occasione per sostituirlo con un proprio sistema di governo.
Se ciò dovesse accadere, si tratterà di un’ulteriore forma di normalizzazione, sia per la monarchia britannica sia per il Regno Unito stesso. È improbabile che nell’immediato futuro questa normalizzazione comprenda la destituzione della monarchia, in quanto essa continua a essere popolare, un simbolo storico, una fonte di fama e di fascino, e sarebbe molto difficile trovare un’intesa politica su come sostituire il monarca con un’altra forma di capo di Stato.
È quasi paradossale che la regina Elisabetta II sia stata una donna alla quale la sua funzione ha imposto di rimanere perlopiù in silenzio e di celare il più possibile la sua personalità, e al tempo stesso che sia arrivata a incarnare un’immagine così forte di continuità con la storia, grazie alla sua longevità. Ha avuto i suoi periodi difficili – come è risaputo, il fallimento di tre dei matrimoni dei suoi quattro figli – oltre alla morte tragica della ex moglie del suo erede, Diana, quasi 25 anni fa esatti, che le ha portato un breve periodo di scarsa popolarità. In ogni caso, il principio per cui la sua personalità doveva scomparire ha retto ancora, facilitando paradossalmente il pieno recupero della sua popolarità.
Il re Carlo sale al trono all’età di 73 anni con lo svantaggio che l’opinione pubblica crede di sapere molto della sua personalità, grazie alla tragedia di Diana e alle opinioni che egli stesso ha veicolato in passato per ciò che concerne ambiente e architettura. Adesso, anche lui dovrà celare la sua personalità e tenere nascoste le sue opinioni.
Di sicuro non è colpa della monarchia britannica, tuttavia da adesso in poi essa sembrerà un’istituzione per taluni aspetti secondaria, in quanto ha perso quei 70 anni di continuità, di senso del dovere, di dignità che la regina Elisabetta ha rappresentato. Seguirne le orme e il comportamento non sarà soltanto estremamente difficile: sarà impossibile.

Gianni Riotta per la Repubblica
Dichiaro davanti a voi tutti che per la mia intera vita, sia essa lunga o breve, sarò con devozione al vostro servizio e al servizio della grande famiglia imperiale a cui tutti noi apparteniamo»: il 21 aprile del1947, daunmicrofono monumentale della BBC montato in Sud Africa, Elizabeth Alexandra Mary Windsor, nel giorno delsuo ventunesimo compleanno, parlò allo sterminato arcipelago di popoli e nazioni che, dall’Europa, all’Asia, all’Africa, alle Americhe, all’Oceania, ancora si riconosceva nell’eredità coloniale della corona britannica. La sua vita è stata lunga, il suo volto, “simulacro ediconadel tempo” secondo la profezia del filosofo Jean Baudrillard, forse il più riprodotto tra il XX e il XXI secolo, monete, banconote, francobolli, sigilli, selfie, cartoline, souvenir kitsch. La maggioranza dei suoi sudditi, nel Regno Unito ed Oltremare, non ha mai onorato nessun monarca se non lei, la Regina, The Queen, Elisabetta II. Ascesa al trono nel 1952, quando alla Casa Bianca sedeva il presidente Henry Truman, al Quirinale il presidente Luigi Einaudi e in Vaticano Papa Pio XII, la regina Elisabetta era il leader più conosciuto almondoavendo, con sagacia, intrecciato tradizione, storia, cultura di massa e, dopo il 2000, comunicazione digitale e social media. Solo un terzo dei giovani britannici sotto i 30 anni è apertamente repubblicano, quando era all’università la neopremier conservatrice Liz Truss distribuiva volantini per abrogare la monarchia, ma Elisabetta, che aveva incontrato appena incoronata il premier eroe Winston Churchill, ha potuto salutare anche l’insediamento dell’ex barricadiera, che adesso guida il cordoglio popolare in lutto.
La lista di primi ministri di Downing Street è lunga quindici premier per Elisabetta, si dice a Buckingham Palace che Churchill la adorasse, con Tony Blair andò d’accordo e il suo rapporto con Lady Thatcher, primadonna premier, ha scatenato biblioteche di biografi, inclusi gli italiani Vittorio Sabadin ed Enrica Roddolo. Boris Johnson provò, invano, a coinvolgerla nelle sue beghe populiste, David Cameron le chiese di «alzare magari un sopracciglio» per invitare gli elettori a bocciare il referendum di secessione della Scozia nel 2014. Lei si limitò, chiacchierando come per caso con un gruppo di parrocchiani, selezionati con cura dallo staff, a incoraggiare i cittadini «a riflettere con attenzione sulle scelte» e questo tradizionalismo più borghese che aristocratico è stato, in fondo, la sua marca politica «meglio le ricette antiche, ascoltarsi e rispettarsi».
Annettere il nuovo nella tradizione, assimilarlo, smussarne la spinta eversiva, scioglierlo come zucchero nel te. Ecco la Regina con i Beatles, conscia che nei versi struggenti diPenny Lane il geniale Paul McCartney scriverà del “pompiere che tiene in tasca il ritratto della Regina” e indifferente quando il rivoluzionario John Lennon restituirà il titolo di Baronetto, in protesta pacifista: che importava ormai? Fatta la foto, annessa la Storia.
Al braccio le storiche borsette Launer, marchio fondato negli anni Quaranta, modelli preferiti Diva, Traviata e uno fatto a mano solo per lei. Il manicoveniva allungato come optional, “per non sgualcire le maniche della Regina” spiegavano in fabbrica, e quei ficcanaso dei reporter americani diNewsweek arrivarono alpunto da indagare su cosa le borsette Launer contenessero: non possiamo inalcun modoconfermare, ma siparlava di rossetto, un allarme antipanico, mentine, fazzoletto di batista, perfino un incongruo uovo sodo.
Quando, nel 1981 con il mondo più affascinato dal punk che dallo stile Old School, Launer andò in difficoltà niente panico, il finanziere Gerald Bodmer salvò il marchio, che dal 1968laReginadecora con ilsuo stemma personale.
A cavallo con Ronald Reagan, elegantissimo nel costume da cavallerizzo in camicia bianca, con i cagnolini corgie alle caviglie, talmente attenta allo sport dell’equitazione da far dire una volta all’impertinente marito Principe Filippo, supplicato di portare la Regina a una fiera della metalmeccanica: «Senon mangianoerba e scorreggiano, a mia moglie le macchine non interessano».
È la principessa del popolo, Diana Spencer, che aliena per una stagione l’amoredel popolo per Elisabetta. Un amore che oggi unisce ricchi e poveri, giovani e no, smarrimento nazionale fra laburisti e conservatori, expats inglesi che vivono a Hong Kong o Silicon Valley, milioni di donne ed uomini abituati a veder cambiare politica, sport, moda, cucina, via i pub con la birra pale ale, dentro sushi e vegan, ma sempre con lei, la Regina, a salutare agitando la mano, nel gesto meccanico riprodotto da milioni di bamboline, le “buone cose di pessimo gusto” del poeta Guido Gozzano.
Fu Blair a parlare di “principessa del popolo”, mentre con il cuore spezzato Elton John cantava della sua amica Diana, “candela nel vento”, e la regina dovette allora tornare in tv, lei che aveva debuttato sui teleschermi durante l’incoronazione, bianco e nero, la prima mai in onda. E scusarsi quasi per la freddezza, provare a tornare “Lilibet”, soprannome con cui nessuno davvero osava appellarla.
Il centenario della Regina Madre, il secondo matrimonio del figlio che adesso verrà chiamato Re Carlo III, i Giubilei, perfino le gesta iconoclaste dei nipoti Harry e Meghan, profughi mediatici nelle ex colonie americane, le battute pesanti sugli indigeni del principe Filippo, la vergognosa saga del figlio Andrew con le ragazze minorenni, alla corte della cricca della coppia Epstein-Maxwell, tutto filtrato, tutto inamidato. La regina garantiva lo status quo, come se l’impero non fosse crollato, Brexit mai esistita e adesso la Scozia, di nuovo, non progettassedi emanciparsi finalmente da Londra.
Lo scherzo alle Olimpiadi del 2012,il filmato con 007, l’attore Daniel Craig, e la Regina in paracadute che atterra nello stadio, per poi sedersi trionfante, in una magnifica coreografia, sigillò l’impresa, stile, humor, eleganza e l’idea che Rule Britannia fosse logo immortale.
La Regina era oltre tutto, capace di prendere il te con l’Orsetto Paddington senza apparire ridicola, di appellarsi al popolo, in pandemia Covid, con la canzone popolare nei giorni bui della Seconda Guerra Mondiale We’ll meet again,ci rivedremo, la ballata di Vera Lynn. Dal web ribolle anche l’astio di chi non partecipa al cordoglio, siti che accusano Filippo di razzismo, Andrew di pedofilia o che ricordano maliziosi Henry George Reginald Molyneux Herbert, Lord Porchester, detto da Elisabetta “Porchey”,vecchio amico appassionato di ippica che il gossip indicava molto vicino alla Regina.
Foglie al vento, come sotto gli alberi a Balmoral, in Scozia: quando tra dieci giorni ci saranno i solenni funerali la sola donna che ci teneva legati al passato, con le sue glorie di libertà e i suoi orrori di schiavitù, se ne andrà e milioni di persone, britanniche e no, si sentirannounpo’ orfane neiruggenti anniVenti del secolo nuovo.

Enrico Franceschini per la Repubblica
Ha regnato più di ogni altro monarca della storia britannica, eppure è diventata regina per caso. Elizabeth Alexandra Mary di Windsor aveva dieci anni quando l’abdicazione di suo zio Edoardo VIII per sposare la stravagante divorziata americana Wallis Simpson, nel 1936, pose suo padre sul trono come Giorgio VI e lei – con sua sorpresa e spavento – in linea di successione diretta per ereditarne lo scettro. Che abbia poi regnato per tanto tempo, praticamente senza commettere errori, anzi commettendone soltanto uno, guadagnandosi l’amore incondizionato dei suoi sudditi e il rispetto del resto del pianeta, sarebbe uno stupefacente titolo di merito per qualsiasi leader mondiale. Il paradosso è che la longevità e la capacità nel fare un mestiere tutt’altro che semplice sono il lascito più scomodo del suo regno: i successori, in particolare il primo, il figlio Carlo, rischiano di perdere ogni confronto con lei, suscitando perfino dubbi sulla sopravvivenza della monarchia dopo la sua scomparsa. “Elizabeth the last”, Elisabetta l’ultima, la battezzò un giornale ostinatamente repubblicano, ilGuardian, nel giorno del suo ottantesimo compleanno: di sicuro, dopo di lei, re e regine d’Inghilterra sembrerannopiù piccoli. Per più di settant’anni è stata lo specchio in cui si riflettevano i suoi compatrioti. Ne ha rappresentato la memoria collettiva: nata all’indomani della prima guerra mondiale e della sanguinosa caduta di un’altra dinastia europea, i Romanov in Russia; principessa ed erede designata al trono durante l’ascesa al potere di Hitler e Mussolini, quindi negli anni tremendi della Seconda guerra mondiale, dalla battaglia d’Inghilterra allo sbarco in Normandia; poi testimone dello smantellamento del British Empire, della Guerra Fredda, della caduta del muro di Berlino e del comunismo, fino alla rivoluzione di internet, celebrata inviando lei stessa il primo tweet della casa reale. Da Churchill ai Beatles, dai Sex Pistols alla Thatcher, dalla tragica fine di lady Diana alla fuga in Canada di Harry e Meghan, dagli scioperi dei minatori alla “Cool Britannia” del blairismo, dal crack finanziario del 2008 alla Brexit, lei c’era sempre, una Zelig dal sangue blu, sullo sfondo della maggior parte dei più importanti avvenimenti del ventesimo secolo e di uno scorcio non indifferente del ventunesimo.
Era una principessa giovane e bella, quando a venticinque anni apprese la morte del padre nel bel mezzo di un safari in Africa e rientrò precipitosamente a Londra per la cerimonia d’incoronazione a Westminster: nel suo timido ma dolce saluto dal balcone di Buckingham Palace si poteva leggere il sollievo di un paese uscito dai traumi del secondo conflitto mondiale. Più tardi, fotografata e ripresa dalle telecamere accanto al marito Filippo e a una nidiata di figli, tra cagnolini, cavalli, buffi cappellini, ancora più buffe borsette, gonne improvvisamente sopra il ginocchio, pic-nic, mangiadischi e gite in barca, Elisabetta e famiglia impersonarono il boom degli anni Sessanta. Ma ha regnato anche negli anni del degrado industriale, del terrorismo dell’Ira e del punk, della Brexit, della pandemia e della guerra in Ucraina; ha intrattenuto la prima donna primo ministro, Margaret Thatcher, e la seconda, Theresa May, apparentemente senza grande feeling per nessuna delle due, facendo appena in tempo a ricevere il giuramento della terza, Liz Truss, dopo le dimissioni di Boris Johnson. E anche quando la famiglia reale è stata travolta dai vizi e dalle passioni della modernità, spinelli, amori clandestini, tradimenti, divorzi, liti tra fratelli e perfino da accuse di pedofilia (al suo terzogenito Andrea, la “pecora nera”), la regina ha fatto il suo dovere: permettere al popolo di identificarsi, visto che in fondo i Windsor stavano vivendo le stesse traversie della gente normale.
È in quella occasione che ha commesso il suo unico errore e poteva costarle il posto: rimase in vacanza nel castello di Balmoral dopo la morte della principessa Diana, mentre i suoi sudditi smentivano la reputazione di popolo freddo e impassibile esibendo shock e commozione. Anche in quel caso, tuttavia, Elisabetta II si è dimostrata in grado di fare ciò di cui molti politici sono incapaci: ammettere l’errore e rimediare. Lo fece su suggerimento del grande comunicatore che aveva provvidenzialmente come primo ministro, Tony Blair: rientrò a Londra, mise la bandiera di Buckingham Palace a mezz’asta in segno di lutto, andò in tv a esprimere il suo cordoglio alla nazione. Venne perdonata, e salvò, se non proprio la monarchia, sicuramente la propria reputazione, tornando a essere amata come prima.
Fu l’unico momento di impopolarità per la monarchia sotto il suo regno. Se la “ditta”, come viene ironicamente chiamata la famiglia reale, resta la sola tradizione intramontabile di un Paese profondamente rinnovato, e una formidabile attrazione turistica, è in non piccola parte merito suo. È stata una brava regina, praticamente perfetta: forse una delle più grandi, secondo iroyal watchers.
Fedele al principio che è seduta sul trono per non far niente, avendo un ruolo puramente cerimoniale: «Non posso guidarvi in battaglia, non posso darvi leggi o amministrare la giustizia, ma posso fare qualcos’altro per voi», disse una volta all’inizio del suo regno, «posso darvi il mio cuore». È stata capace di adeguarsi ai tempi che cambiano, restando sé stessa. Ha rinunciato al panfilo, è entrata in un pub e addirittura in un McDonald’s, pur conservando le inconfondibili borsette, la permanente perfetta, il filo di perle al collo. Umanamente, non sarà stata una moglie, madre e nonna particolarmente calorosa e affettuosa: dicono che amasse le bestie, in primo luogo i suoi cagnolini “corgies” e i cavalli, più degli uomini, come conferma la serie televisiva The crown, peraltro anch’essa una testimonianza del suo successo globale. Ma è riuscita, per doti innate o affinate dal tempo, a recitare la parte affidatale dal destino, anche quando è rimasta sola, dopo la morte del marito Filippo, contrariamente alla previsione di chi la voleva a quel punto fragile e spenta, continuando a recitare la sua parte, con il sorriso, nonostante altri dolori e dissidi, come il volontario esilio americano del nipote Harry con la moglie Meghan. Dopo averla avuta di fronte per tutta la vita, sui francobolli, sulle monete, sulle banconote, oltre che nelle regolari apparizioni dal balcone, a Westminster e in tivù per gli auguri di Natale, come faranno gli inglesi senza di lei? Dio ha salvato la regina, proteggendola da tempeste lunghe quasi un secolo, ma è dei suoi successori e dei suoi sudditi che ora dovrebbe preoccuparsi.

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Enrica Roddolo per il Corriere della Sera
U na regina nella Storia che aveva una vita privata, un’umanità rivelata solo a chi la conosceva bene. La passione condivisa con l’amato Filippo per i picnic a Balmoral, con una kitchenette su quattro ruote (e guai a riporre le stoviglie malamente). A Balmoral, lì dove il destino ha voluto spirasse. Lì dove si trovava esattamente 25 anni fa alla morte della principessa Diana. Un destino ha legato le loro vite per sempre.
Ho chiesto a Lady Fiona, moglie di Lord Carnarvon figlioccio della regina, come abbia fatto Elisabetta a non fermarsi mai, fino all’ultimo, fino a conferire con le sue mani di 96enne l’incarico al neo premier Liz Truss. Non si era fermata neppure dopo la morte di Filippo, il duca di Edimburgo nel 2021. Come c’è riuscita? «La regina era una donna molto cristiana, con una fede profonda e, anche se so bene che non ha trascorso un solo giorno senza sentire l’immensa mancanza del principe Filippo, è andata avanti. Sapeva che questo era il suo dovere: andare avanti. Troppe persone offrono solo parole e zero azione. La regina al contrario ha costantemente lavorato per dare un senso concreto alle sue promesse, una vera inspirational leader» aggiunge Lady Carnarvon. «E poi una donna dall’umorismo strepitoso, sempre pronta a una battuta».
Amante degli animali e della natura, i cavalli, i suoi cani corgi innanzitutto. Il primo pony regalatole dal nonno Giorgio V. «Ricordo bene quando a Balmoral l’aiutavo a dare da mangiare ai corgi, non erano per così dire amichevoli», ha confidato Lord Carnarvon. Quanto ai cavalli, la sua passione era talmente marcata da finire nel sermone del Te Deum per il Giubileo di Platino nel giugno scorso.
«A Buckingham Palace, a un ricevimento per il suo Giubileo d’oro quasi caddi facendo la riverenza di rito davanti alla regina – ricorda la principessa Camilla di Borbone —. E dopo che lei come vuole il protocollo mi rivolse la parola le dissi che ero inesperta quanto a parentele reali. Mi rispose: “Oh non tema cara, anche se sbaglia qualche parentela nessuno ci farà caso”. La vidi ancora ad Ascot, parlammo di cavalli, carrozze, la sua passione per gli animali. Ricordo anche un altro imbarazzo: è d’obbligo il cappello all’appuntamento del Royal Ascot, e avevo scelto un cappello vistoso, color fucsia ma le dissi che temevo di aver scelto male il colore. Lei, con il suo sorriso, mi disse che era il suo preferito stemperando ogni timore».
Semplice e unica. «Aveva una memoria prodigiosa, una donna generosa, gentile. L’ho incontrata spesso con Filippo, e come la regina, anche lui non si è mai curato di quanto pensassero gli altri. È andato dritto per la sua strada, ha pensato per l’intera vita solo a fare bene il suo lavoro. Con un’idea chiara: non possiamo dimenticare il passato ma neanche il futuro e dobbiamo costruire ponti. Ed è lo stesso principio che ha sempre guidato la regina», dice lo storico Hugo Vickers, vicinissimo alla famiglia reale. Come passerà alla storia Elisabetta? «Credo come “Elizabeth The Steadfast”, “Elisabetta la costante”». C’è un episodio in 70 anni, dopo l’affetto del momento dell’incoronazione della giovane sovrana, che ne ha fatto la regina di tutti? «Credo alla morte della Queen Mother: quando la salma della regina madre lasciò Westminster Hall ci fu un applauso discreto, come se l’affetto popolare si fosse trasferito in quel momento da una figura matriarcale all’altra».
Adesso tocca a Carlo, ma la regina ha fatto in tempo a preparare anche il nipotino George come aveva fatto il nipote William? «Sì, la regina lo ha già aiutato a capire, ci sono stati degli incontri con il nipotino George. Come è stato con William. Una grande scuola per il futuro che li attende». E di incontri con la nonna, George – attorno a una tazza di tè al latte come piaceva a lei – si preparava a farne ancora molti. Il trasloco dei Cambridge vicino a Windsor era stato pensato proprio per questo.


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Michele Masneri per Il Foglio
Quando si ebbe a chiedere a Reed Hastings, leggendario fondatore e ceo di Netflix, in una colazione all’Hotel de Russie a Roma qual era la sua serie Netflix preferita, non ebbe dubbi. Non “Gomorra” che pure scoprì essere girata in quelle stanze, ma “The Crown”. Non volle dire, il californiano, se, come in molti sussurrano, la Casa reale aveva visionato il prodotto, ma quel che è certo è che con la dipartita di Elisabetta si concluderà l’ultima stagione di una lunga, avvincente, per molti versi non replicabile fiction di stato (non quella che voleva Franceschini). E non disdici quando vuoi: lei è arrivata fino in fondo; e chissà quanti errori e licenze saranno state prese rispetto alla realtà, non solo in “The Crown” ma anche in tutti i prodotti e sottoprodotti e derivati che il piccolo e grande schermo hanno messo su negli anni grazie a quella famigliona disfunzionale dei Saxe-Coburg-Gotha poi trasformati in Windsor nel 1917 quando non era chic avere dei cognomi tedeschi (anche questo lo si è visto e rivisto nel polpettone netflixiano, col casato molto nazista del povero e belloccio principe Filippo, la zia suora che sembra la santa della “Grande bellezza”, ma senza fenicotteri, la sbevazzona e infelice Margaret sempre a Roma sull’Isola Tiberina – oggi sarebbe un’influencer pazzesca di lamenti e lifestyle globale; e lo zio lord Mountbatten molto pedofilo e pazzo per le uniformi e per chi c’è dentro (ma questo era troppo perfino per Netflix) che orchestra il matrimonio di Filippo e infine finisce brillato per una bomba dell’Ira (ma poi Elisabetta andrà ugualmente in Irlanda): insomma, dove lo trovi un plot così, oltretutto in una sola famiglia, per quanto allargata. Non funzionerebbe in Spagna con la regina malmostosa e silente, per non parlare delle monarchie nordiche, con la regina di Danimarca molto artista e bisognosa di pulizie dei denti. Né il Lussemburgo offrirebbe set adatti, senza cacciagioni e cervi. La Gran Bretagna ha sempre potuto invece contare sui suoi monarchi come straordinari testimonial per product placement, pensiamo alle macchine, dalle Range Rover alle Mg, ai biscottini al burro celebrativi di battesimi e nozze reali, fino ad arrivare a quelli biologici di Carlo. Le quattro stagioni che appassionati (e non) seguono col fiato sospeso sono state un grande ripassone per una saga senza uguali, che tiene gli inglesi inchiodati dal 1952, quando Elisabetta nel pieno di un viaggio kenyano scopre che il padre, Giorgio VI, è infine atterrato dal male polmonare che lo faceva soffrire da sempre. Anche lui parte dell’indotto, e che indotto: dal “Discorso del re”, fino a “The Queen”, fino al recente, “arty”, e presuntuoso “Spencer”, che sposa la causa di Diana, morta venticinque anni fa. E chissà cosa sarà dopo Elisabetta la monarchia inglese, con Carlo già nonno e coi Cambridge scalpitanti e coi Sussex scappati (letteralmente) di casa, però quello che è certo è che il royal grant, ciò che la Gran Bretagna paga ai suoi royals, 9,9 milioni di sterline per l’anno fatale 2022, genera da sempre come investimento dei multipli pazzeschi, altro che superbonus o bonus zanzariere, garantendo un mercato e una sussistenza a fotografi, tabloid, biscotti, vestiti, da uomo donna e unisex: una cifra che comunque non basterebbe per mettere su neanche un “Don Matteo”, un commissario “Imma Tataranni”, figuriamoci la più grande saga audiovisiva di tutti i tempi.