La Lettura, 20 marzo 2022
Su "Kundera e Fellini. L’arte di non incontrarsi" di Stefano Godano (Rizzoli)
Primo atto. Nel 1987, Milan Kundera fa un elogio di Federico Fellini. Visionaria e possente, la sua opera interroga il «destino europeo» fin nelle viscere. Siamo dinanzi all’erede di Franz Kafka, che ha tradito le regole della verosimiglianza, determinando «la liberazione radicale dell’immaginazione (...) con la facilità di un sogno», per spingersi, con slancio orgiastico, verso «cime inaccessibili». Si tratta di giudizi che sono stati ripresi da Kundera in alcuni articoli e in significativi passaggi delle sue raccolte di saggi (Il sipario, L’incontro): riconosce nell’autore di 8½ «l’ultimo gigante dell’arte». In particolare si sofferma sugli ultimi film — La città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, Intervista e La voce della luna — che «gettano uno sguardo magico (...) e insieme terribilmente lucido, sul mondo moderno». Abile nel portarsi al di là di un consolidato arsenale di conoscenze, Fellini assapora qui la «gioiosa irresponsabilità» della libertà: perviene alla stessa fusione di realtà e sogno dei surrealisti. Eppure quei capolavori della tarda modernità sono stati dimenticati, rimossi. Scrive Kundera: «Mi ricordo i funerali di Fellini mentre la sua opera (...) da almeno quindici anni era già stata sepolta un chilometro sottoterra dagli addetti alla manutenzione del futuro».
Secondo atto. Fellini prova una sincera gioia quando, nell’ottobre del 1993, ricoverato al Policlinico di Roma, gli viene letto un articolo di Kundera, dove è descritto come «la vetta più alta dell’arte moderna; l’immagine che meglio svela (...) il nostro mondo». È la conferma di un’affinità segreta. Negli anni precedenti, lo scrittore e il regista si sono scambiati tante lettere. Ma, attori di una drammaturgia della lontananza, non si conosceranno mai di persona. Per ragioni diverse. «Se Kafka venisse per tre giorni sulla Terra non avrei la forza d’incontrarlo e così sarebbe per Heidegger», dice Kundera. Il quale, vittima di una trés stupide timidité, si sente timoroso di fronte a Fellini, specialista negli incontri mancati, incline ad assecondare i giochi di un fato misterioso.
Terzo atto. Gennaio 1994. Daniela Barbiani, nipote di Fellini, e suo marito Stefano Godano, giornalista appassionato di letteratura e cinema, inviano a Kundera una lettera, nella quale rivelano la profonda stima provata
dal grande cineasta nei suoi confronti. Qualche giorno dopo arriva la risposta. L’intrattabile Kundera confessa l’amarezza per i molti appuntamenti rinviati; e parla di un amore «senza limiti» per i film del maestro, che «sapeva tutto». A quella missiva seguono tanti scambi epistolari e molte occasioni private. Proverbialmente riservati, Kundera e sua moglie Vera fanno entrare i due amici italiani nel loro ristretto cerchio di affetti. Li invitano in ristoranti e bistrot. E li ospitano nell’inaccessibile casa-studio parigina, alle cui pareti ci sono quadri di Francis Bacon e di Ernest Breleur, uno schizzo di Fellini e disegni dello stesso Kundera.
Quarto atto. Dal 1985, si sa, Kundera si sottrae a ogni intervista giornalistica e televisiva, distante da ogni forma di autobiografismo manifesto, sorretto da una convinzione: l’artista parla solo con le proprie opere. Invece, in maniera inattesa, l’intransigente Kundera avvia un intenso dialogo con Godano e Barbiani: a loro affida le riflessioni che, forse, avrebbe voluto condividere con Fellini. Egli si svela nel suo carattere: affascinante e ironico ma anche severo e intransigente; leggero, fanciullesco e ingenuo, ma insofferente verso ogni compromesso; carismatico, divertente, mai convenzionale, ma impegnato a difendere i valori della fedeltà. E soprattutto... «Sono molto timido», ripete. Con il suo parlare lento e melodioso, quando si ritrova con Godano e Barbiani, Kundera affronta argomenti diversi. Innanzitutto, parla dell’Italia, sua patria elettiva: «Forse dovevo venire prima in Francia, ma dopo qualche anno in Italia sarei stato meglio». E interroga Godano e Barbiani sulle relazioni di Fellini con gli altri registi, con gli sceneggiatori, con i produttori, con Silvio Berlusconi. Dedica, poi, intere serate agli «arci-romanzi» di Curzio Malaparte. Frequenti i riferimenti agli amici italiani (Eugenio Scalfari, Roberto Calasso, Pietro Citati, Massimo Rizzante). Polemico nei confronti di quella che definisce la gauche caviar, sempre in bilico tra estremismo e conformismo, Kundera si abbandona anche alle incursioni politiche: «Com’era possibile che l’Italia accettasse Berlusconi e soprattutto perché mancasse una reazione da parte del mondo della cultura?». Tanti ricordi di viaggi. Dalla Martinica all’Islanda, prodigiosa combinazione di «solitudini che ci spiano». E l’Italia: Venezia, Roma, Palermo, Capri. Incantevoli i borghi, «dove si vive in pace, fuori dai circuiti turistici e si sente solo il suono delle campane e la gente è gentile». Infine, i doni. Kundera regala a Daniela e Stefano un piccolo corpus di disegni. Una mascherata carnevalesca, fatta di tratti di matita, di colori accesi e di linee sinuose, realizzate senza staccare la mano dalla carta. Dolci, amare e divertite, figure dinamiche volteggiano nel vuoto, sulle onde di una musicalità oscura.
Quinto atto. Trasgredendo la propria anti-mediaticità, Kundera autorizza Godano a ricostruire, per momenti decisivi, la cronaca di un’amicizia. Ne emerge un libro gradevole, sorprendente, ricco di episodi privati, costellato di disegni mai pubblicati e di frasi inedite: un piccolo alfabeto-Kundera (Kundera e Fellini. L’arte di non incontrarsi, Rizzoli). Corrispondenze lontane. Percorsi che sembrano correre su binari paralleli. Testimoni di un’Europa che «non cerca più la sua identità nello specchio della filosofia e delle arti» (come si legge in Il sipario), i due dioscuri si comportano da persone normali che, consapevoli però della propria «unicità», rifuggono dall’assalto dei media, rifiutando ogni ostentazione e ogni presunzione. Inoltre, portati a nascondersi dietro maschere e menzogne, Fellini e Kundera si muovono tra ironia, esattezza e assurdo. Filtrano le proprie visioni attraverso lo humour, che conferisce al visibile un tono straniante e stupito. E, insieme, coltivano il medesimo fanatismo della precisione, controllando ogni dettaglio, ogni sfumatura. Ma, soprattutto, amano costeggiare i territori di quell’insignificanza cui Kundera ha dedicato il suo ultimo romanzo (La festa dell’insignificanza, 2013), divertissment felliniano abitato da personaggi stravaganti.
Sesto atto. E, tuttavia, c’è qualcosa di più profondo che lega questi due modernisti-antimoderni, filologi dell’animo umano che compongono epiche dissonanti, aperte, inconcluse. Impegnati a sondare le possibilità inesplorate del cinema e della letteratura, costruiscono divagando: perdono e ritrovano continuamente il filo delle proprie ossessioni. Incuranti delle connessioni immediate, procedono per cesure nette. Poi, grazie a minimi raccordi, riaccostano varie tessere in collage le cui parti sembrano tenersi insieme quasi per miracolo. Si tratta di polifonie inventate da artisti dotati di un temperamento mercuriale. Poeti di una semiotica che vuole decifrare i sintomi, Fellini e Kundera si portano oltre i modi del realismo. Teorici dell’arte come dottrina veridica e liberatrice dell’uomo, tentano di intuire il lato inevidente del vero. Un po’ come avviene nei sogni, rimodulano a oltranza eterogenei frammenti di vita. Sperimentano una lettura dei fatti basati non sulla conoscenza ma sui vuoti dell’informazione, che colmano con un lungo ascolto degli indizi. Voci di un sapere muto, afferrano le cose nell’intervallo di un prodigio. Sapienti nel prendere in contropiede le aspettative di senso, danno voce a inapparenze, eppure restano sempre ancorati alla storia del Novecento. Fino a trasformare le loro opere in inestricabili impasti di verità e di sogno, di memorie e di miraggi, tra abbandoni melanconici, comici ed erotici. Kundera e Fellini, dunque. «Marescialli dell’immaginazione e cacciatori di scintille».