il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2022
Prolifici o stitici: gli scrittori. King troppo. E chi no…
Meglio gli scrittori prolifici o gli scrittori stitici? La rentrée autunnale rinnova l’eterna questione che contrappone quantità e qualità. Al centro del dibattito due star della narrativa a stelle e strisce. Da una parte Stephen King, che timbra il suo cartellino annuale con l’ennesimo romanzo, e dall’altra Cormac McCarthy, in odore di Nobel, che tornerà dopo tre lustri di silenzio da La strada a pubblicare due novel tra ottobre e novembre.
Entrambi gli autori, da mezzo secolo sulla scena, sono degni rappresentanti delle fazioni avverse. Se King ha superato il centinaio di opere, McCarthy non supera la decina. Se King è l’emblema dello scrittore di genere – costretto a onorare scadenze contrattuali per mantenere le sue royalties milionarie – McCarthy è il letterato raffinato che licenzia pagine ai ritmi rallentati della sua urgenza creativa. Ieri, alla soglia dei 75 anni che compirà il 21 settembre, King è tornato in libreria con Fairy Tale, edito da Sperling & Kupfer. Un fantasy di settecento pagine che si aggiunge a svariati altri corpi contundenti di carta (compreso Il talismano, scritto negli anni 80 in coppia con Peter Straub, morto fatalmente pochi giorni fa). King, maestro della dismisura, ha avuto persino l’agio di firmare quattro romanzi con lo pseudonimo di Richard Bachman, salvo poi, una volta scoperto, disfarsene. A differenza di J. K. Rowling, la celeberrima autrice di Harry Potter che, pur smascherata, è giunta al sesto poliziesco scritto con il nom de plume di Robert Galbraith. Una grafomania tanto incontenibile (il record appartiene alla spagnola Corin Tellado: 4 mila romanzi tra il 1946 e il 1991) è per molti sintomo di superficialità. Sovviene la sentenza di Truman Capote su Jack Kerouac: “Quello non è scrivere, è battere a macchina”. Sentenza che dentro i nostri confini insegue gli stacanovisti da cento opere della nostra narrativa popolare: da Emilio Salgari a Giorgio Scerbanenco, da Liala ad Andrea Camilleri.
Il giudizio, spietato, è sempre lo stesso: più uno scrive, più scrive male. Al riguardo King – capace di pubblicare in sequenza due titoli acclamati come It e Misery – si difende: “La quantità non garantisce qualità ma non è detto che la quantità non produca mai qualità”. Basterebbe scomodare Georges Simenon, “macchina da scrivere umana”, per testimoniare che si possono scrivere decine di romanzi nel volgere di tre giorni per ciascuno ed essere consacrati al rango di classico del Novecento.
Certo è vero che nella narrativa di genere separare il grano dal loglio è impresa ardua (quanti e quali sono i romanzi più riusciti tra gli innumerevoli di Isaac Asimov o di Agatha Christie?). Spesso il sospetto che si allunga è che un solo essere umano non possa essere in grado di produrre tante pagine. Un segreto di Pulcinella: l’americano James Patterson, a oggi più di 200 titoli, non fa mistero di affidarsi a coautori. Wilbur Smith era diventato un nome sulla copertina, molti suoi romanzi di avventura sono stati scritti da ghost writer. È la “Sindrome di Bartleby”, sull’onda del “Preferirei di no” dello Scrivano di Melville, il contraltare di questi bulimici.
Non si contano i riluttanti della penna, coloro che non conoscono l’usura dei polpastrelli. Dal messicano Juan Rulfo – che dopo due romanzi smise di scrivere una volta deceduto lo zio Celestino ispiratore delle sue storie – a J. D. Salinger, che dopo Il giovane Holden pubblicò tre raccolte di racconti e per quarant’anni, fino alla morte, sparì dalla circolazione. Paradigmatici i casi di Harper Lee, autrice nel 1960 di Il buio oltre la siepe, e nel 2015 tornata in libreria con Va’, metti una sentinella. Stessa parabola per Henry Roth, dopo Chiamalo sonno del 1934 tornò alla pubblicazione poco prima della morte a metà degli anni 90. Senza dimenticare gli autori di una sola opera, eppure in grado di guadagnarsi una fetta di immortalità. Due esempi tra i tanti: Margaret Mitchell con Via col vento e Boris Pasternak con Il dottor Zivago.
Quantità e qualità possono dunque coniugarsi? Due autrici americane contemporanee, al pari di King e di McCarthy, sintetizzano le opposte inclinazioni, una prolifica e l’altra pudica fino all’avarizia, ma sono entrambe riconosciute dalla critica. Joyce Carol Oates, dal suo debutto nel 1963, ha pubblicato oltre cento titoli suddivisi in ogni genere letterario. Destino contrario quello di Donna Tartt: tre libri, uno ogni dieci anni: Dio di illusioni del 1992, Il piccolo amico del 2002 e Il cardellino, con il quale nel 2013 ha vinto il premio Pulitzer. Su questa falsariga, per stare alle nostre lettere, si potrebbe scomodare la coppia Alberto Moravia – Elsa Morante. Sono due mostri sacri. Ma lui, dal 1929 al 1990, ha pubblicato un libro all’anno, lei al pari di Donna Tartt, ha licenziato i suoi quattro capolavori in quattro decenni successivi. E non vale certo la battutaccia di Ennio Flaiano: “Se uno scrittore è prolifico, date un’occhiata a sua moglie. È quasi sempre brutta. E che volete che faccia il poveretto? Scrive!”.