Il Messaggero, 8 settembre 2022
Intervista a Oliviero Toscani
L’annuncio è clamoroso. «Sono stato interpellato da un’importante fondazione americana contro le armi, che ha anche un’agenzia di comunicazione, per un progetto che spero vada in porto. La National Rifle Association of America è una delle più potenti corporazioni statunitensi a favore delle armi. Bisogna andare contro di loro, c’è poco da fare». A dirlo è Oliviero Toscani durante un’anteprima, nel contesto della Villa del Colle del Cardinale, all’undicesima edizione del Festival delle Corrispondenze (Monte del Lago, Perugia, 6-11 settembre). Toscani, che in questi giorni è in visita presso alcuni comuni dell’Ogliastra, in Sardegna, per fotografare gli ultracentenari all’interno delle loro abitazioni, è venuto per parlare di un bel libro, uscito in piena pandemia: Caro Avedon. La fotografia in 25 lettere ai grandi maestri (Solferino). Una raccolta di lettere mai inviate, e scritte per l’occasione, per riflettere sull’avvenire dell’arte della fotografia. Richard Avedon coi suoi ritratti in bianco e nero, Helmut Newton coi suoi nudi femminili, la celebre agenzia fotografica Magnum. Sono alcuni dei soggetti destinatari delle lettere, di cui Toscani ricostruisce, anche solo focalizzandosi su una semplice angolazione, una precisa concezione del mondo. Michele Smargiassi osserva, nella prefazione al volume, che fra le due saldare i debiti e «regolare i conti in sospeso» prevale, nell’epistolario fittizio del grande fotografo, la prima componente. È così, sebbene non manchino certo le sferzate, le idiosincrasie, le intemerate di un coraggioso mistico dello sguardo gettato sempre oltre, spesso in largo anticipo sui tempi.
Chi è per lei un fotografo?
«Tutti fotografiamo, ma essere un fotografo non vuol dire solo fotografare. Il fotografo è un pensatore. Guarda, sceglie, analizza, critica dal suo punto di vista. Quello del fotografo è un mestiere intellettuale, come la scrittura. Un mestiere oggi inflazionato da gente incompetente. La professione fotografo non esiste più. Esiste però ancora l’immagine, e la fotografia è oggi un importantissimo modo di comunicare. Fotografiamo arrivando perfino a capovolgere il rapporto che abbiamo col mondo reale. Non ci interessa più di tanto assistere a un concerto, crediamo molto di più nelle foto che ne abbiamo ricavato. L’immagine riprodotta è ormai più vera dell’immagine reale».
Quali debiti ha contratto l’allievo Toscani nei confronti dei suoi venticinque maestri?
«Ciascuno di loro ha una personalità unica e irripetibile, e da ognuno ho imparato qualcosa. Di diversi fotografi ho apprezzato il coraggio. Alcune foto dei pellirosse americani di Edward Sheriff Curtis, un vero pioniere, sono incredibili».
Da chi ha imparato di più?
«Avedon, che ho conosciuto a fondo, è il più completo di tutti. La sua capacità di lettura della personalità dei soggetti fotografati è incomparabile. Anche August Sanders mi ha insegnato molto. Era un fotografo commerciale, ma le foto scattate alla gente comune (per strada o nel suo studio) hanno una forza incredibile. Sanders mi ha fatto capire che non è il virtuosismo, ma il suo esatto contrario, a fare l’artista. Soltanto quando sei riuscito a togliere tutto puoi forse dire di essere arrivato ad avere tutto, e lui è stato un esempio di essenzialità fotografica».
L’importanza storica della fotografia?
«È da quando esiste la fotografia che conosciamo la storia umana, quella vera. Se avessimo reportage fotografici sull’unificazione dell’Italia fatta dai Mille forse Giuseppe Garibaldi, per le violenze commesse sulla povera gente per unificare il paese, non avrebbe tutti i monumenti che ha. Solo con l’invenzione della fotografia possiamo davvero parlare di memoria umana. Per me i racconti della Bibbia o del Vangelo potrebbero essere facilmente delle fake news. Nessuno mi può provare il contrario. Avrei voluto avere la macchina fotografica, fossi vissuto al tempo, per fotografare i miracoli di Gesù Cristo».
E oggi?
«M’interessa poco stare a discutere se la fotografia è arte oppure no. È però il mezzo di comunicazione più importante, di sicuro più della pittura, che esista in questo momento. Oggi chi usa il mezzo fotografico nel modo più attuale è Chiara Ferragni. Tecnicamente deve andare ancora all’asilo, neanche alle elementari, ma pubblica una foto e milioni di persone la guardano. Quale altro fotografo ha la stessa possibilità?»
Ferragni a parte, come si può riuscire a essere un fotografo moderno, al passo coi tempi?
«Ogni fotografia è un pezzo unico risultato dell’opera di più persone concentrate in una sola. Un fotografo moderno dev’essere innanzitutto un autore, deve avere una storia nella sua testa e immaginare qualcosa su ciò che sta guardando, e poi uno sceneggiatore, uno scenografo, un regista, un direttore della fotografia e infine un cameraman, che scatta la fotografia dopo aver registrato il pensiero e le scelte dei cinque che l’hanno preceduto».
Negli anni Ottanta ha siglato per Benetton un manifesto (censurato) che ritraeva un prete e una suora nell’atto di baciarsi sulla bocca. Oggi abbiamo desacralizzato un po’ tutto, ma la cappa del politicamente corretto è sempre più pesante.
«Sesso e morte sono ancora lì, se parliamo di resistenza del sacro. Detto questo, in ogni epoca c’è una morale di maggioranza e sarà sempre così».
Finiremo esagero per non poter più dire, scrivere o fotografare niente? L’urgenza etica finirà per prevalere sulla libera espressione artistica?
«Ci sarà sempre chi trasgredirà. Sono perciò ottimista. Il futuro è l’utopia. Dobbiamo credere utopicamente alle cose, dobbiamo realizzare ciò che pensiamo sia utopia. Diamoci da fare».