Corriere della Sera, 8 settembre 2022
Gli italiani visti dagli europei di Bruxelles
N e è passato di tempo da quando i negozi in Belgio esponevano il cartello «Ni chiens ni Italiens» (no ai cani e agli italiani). Ci vollero decenni perché gli italiani immigrati, in fuga dalla fame, arrivati in seguito all’accordo «minatore-carbone» del 1946 tra Bruxelles e Roma, si integrassero. E ci volle una tragedia, Marcinelle, per contribuire a cambiare il modo in cui eravamo visti. Bruxelles però non è solo la capitale del Belgio, è sede delle istituzioni dell’Unione europea dove gli italiani si confrontano quotidianamente con i cittadini degli altri 26 Stati Ue. L’Italia è la terza economia d’Europa, un dettaglio che non può essere trascurato negli equilibri all’interno dell’Ue.
Ora gli italiani provengono dalle migliori università, sono nei gangli delle istituzioni e sono punti di riferimento della politica e della cultura europee. Bruxelles è un osservatorio privilegiato per capire come ci guardano gli altri. E la constatazione è che i luoghi comuni verso il Belpaese sopravvivono sia tra i Paesi del Nord che tra quelli del Sud. Prima del 14 luglio, delle dimissioni «incomprensibili» per il resto d’Europa del premier Mario Draghi, questo racconto sarebbe stato in parte diverso grazie al credito che l’ex presidente della Bce gode a livello internazionale e che ha contribuito per oltre un anno e mezzo a far brillare di luce riflessa anche il nostro Paese.
Ma andiamo con ordine. C’è un legame profondo tra l’Italia e il Belgio. Non solo perché la regina Paola è una Ruffo di Calabria, perché Romelu Lukaku è tornato all’Inter e Dries Mertens si è innamorato di Napoli, dove ha giocato per nove anni – recordman assoluto nel numero di gol segnati con la maglia azzurra – al punto da chiamare il figlio Ciro, il nome che gli avevano attribuito i tifosi partenopei («Sono molto orgoglioso che mio figlio Ciro sia nato a Napoli – ha dichiarato – Per nove anni è stata la mia terra»). Oppure perché dagli anni Settanta la famiglia Ferrero vive a Bruxelles, da dove Giovanni guida il terzo gruppo dolciario al mondo. E il film italo-belga «Le otto montagne», tratto dal romanzo di Paolo Cognetti, girato dai fiamminghi Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen quest’anno ha vinto il premio della giuria al Festival di Cannes. La comunità italiana è la più numerosa seguita da quella marocchina. Ci sono circa 300 mila passaporti italiani in Belgio.
Mio nonno venne qui
a lavorare nelle cave di pietra C’era paura verso di noi, c’è voluto tempo per integrarci
Dobbiamo andare indietro nel tempo, tornare al secolo scorso. La Repubblica italiana era nata da poche settimane quando il 20 giugno del 1946 strinse un accordo con il governo belga per fornire manodopera per le miniere in cambio di carbone a prezzo di mercato. Bisognava ricostruire il Paese dopo la guerra e avevamo bisogno di materie prime: l’intesa prevedeva l’invio di 50 mila uomini ma alla fine furono molti di più. Si stima che fra il 1946 e il 1957 in Belgio arrivarono 140 mila lavoratori italiani appartenenti alle fasce più povere della popolazione, per svolgere quei lavori in miniera e nelle cave che i belgi non volevano più fare. La Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca), nucleo di quella che sarà la Cee, nascerà solo nel 1951. «All’inizio non fu facile, c’era diffidenza nei confronti degli italiani, in guerra fino all’anno prima dalla parte dei tedeschi», racconta Marc Tarabella, eurodeputato: «Sono belga di seconda generazione, mio padre è nato in Toscana, mio nonno è venuto in Belgio a lavorare nelle cave di pietra. C’era paura verso gli stranieri. C’è voluto tempo perché ci integrassimo. Alla fine gli italiani hanno influenzato molto il modo di vivere dei belgi. Ora sono imprenditori edili, ristoratori, moltissimi medici. Salvatore Adamo e Frédéric François, due dei più popolari cantanti belgi sono di origine italiana. Nel 1986 abbiamo vinto l’Eurovision, l’unica volta, con Sandra Kim, pseudonimo di Sandra Caldaroni». Di origine italiana, naturalizzato belga, è anche il produttore e cantautore Rocco Granata, diventato famoso in tutto il mondo con la canzone Marina. Il razzismo nei confronti degli italiani era all’ordine del giorno. «Ci chiamavano, macaroni – prosegue Tarabella —. Io sono interista da quando avevo 9 anni. Nel 1972 l’Inter venne a giocare i quarti di finale contro lo Standard di Liegi. Mi prendevano in giro ma ricordo che soddisfazione quando abbiamo vinto».
È la tragedia di Marcinelle a cambiare il modo di considerare gli italiani e a porre fine all’emigrazione ufficiale dal nostro Paese. Nella miniera di carbone del Bois du Cazier, nel bacino carbonifero di Charleroi, nei pressi della cittadina belga di Marcinelle, in Vallonia, l’8 agosto del 1956 scoppiò un incendio in cui morirono 262 operai di dodici nazionalità, tra cui 136 italiani. Una tragedia che continua a essere commemorata. «In quel momento gli italiani furono visti come una popolazione che si è sacrificata per il Belgio e che ha dato tanto per il suo sviluppo», spiega Maria Arena, eurodeputata belga, madre originaria della provincia di Caltanissetta e padre della provincia di Enna. «Poi però c’è stata la crisi economica degli anni Settanta e gli italiani impiegati soprattutto nella grande industria si ritrovarono senza lavoro. Il loro tasso di disoccupazione – prosegue Arena – era il doppio rispetto a quello tra i belgi, usufruirono di più della cassa per la disoccupazione con l’effetto che cominciarono a essere considerati un po’ lamentosi e sfaticati. C’è poi un terzo modo di vedere gli italiani legato alla costruzione europea con la nuova generazione di expat che lavorano nelle istituzioni Ue, colti e portatori di un’italianità sofisticata. Un’evoluzione che si può vedere anche nella ristorazione: negli anni ’70 c’erano prevalentemente pizzerie, ora i ristoranti migliori di Bruxelles sono italiani». Il simbolo dell’integrazione riuscita è Elio Di Rupo, padre originario di San Valentino (Pescara), presidente del partito socialista belga dal 1999 e primo ministro di origine non belga dal 2011 al 2014, attualmente alla guida della Vallonia.
La nuova generazione di expat
che lavora nelle istituzioni Ue rappre-senta un’italianità sofisticata
I pregiudizi sono duri a morire, sono come un fiume carsico. Ne ha fatto esperienza l’ambasciatore italiano in Belgio Francesco Genuardi, fresco di incarico nell’aprile del 2022: «L’Università di Leuven per pubblicizzare i suoi corsi di italiano aveva usato lo slogan in fiammingo “Così non ordinerai una ‘ndrangheta per dolce” – racconta —. Ho parlato subito con il rettore che ha deciso lo stop immediato della campagna pubblicitaria, non era nelle loro intenzioni offendere la comunità italiana e abbiamo anzi concordato un rafforzamento della collaborazione proprio per far conoscere meglio le azioni portate avanti dall’Italia per il rispetto della legalità e la lotta contro la criminalità organizzata». Eccetto per questo episodio, Genuardi ha sempre riscontrato grande interesse per il nostro Paese: «Il mio impegno ora è nella diplomazia del Made in Italy, declinato anche come innovazione e tecnologia – spiega – per far conoscere l’Italia meno nota qui. Anche nelle Fiandre c’è grande interesse per il nostro Paese. Un sondaggio condotto durante il Covid tra i giovani fiamminghi ha rilevato che uno dei loro principali sogni è aprire un agriturismo in Toscana».
Tra gli europei che lavorano nelle istituzioni i cliché nei nostri confronti abbondano. Ma un dato emerge: «Gli italiani sono visti come un popolo che tiene testa ai francesi, nei confronti dei quali i belgi hanno un complesso di inferiorità, cercano sempre di imitarli», racconta Giuseppe Meroni, decano degli assistenti parlamentari: «Gli altri europei apprezzano molto lo stile di vita italiano, la nostra moda, lo sport».
Mi sono imbattuto in stereotipi, questo sì, ma c’è interesse e spirito di collabora-zione verso di noi
La conferma arriva dalla Svezia. Chi lavora nelle istituzioni ha accettato di parlare ma sotto anonimato, garanzia di spietata sincerità. «Per gli svedesi siete il Paese delle tre F: food, football, fashion. Un Paese bellissimo per andare in vacanza e dove si mangia bene ma dove è meglio non vivere perché non siete molto organizzati. Draghi è l’eccezione, tutti lo amano in Europa e credono in lui. La vostra caratteristica – prosegue la nostra fonte svedese – è che parlate troppo per noi, forse perché noi parliamo troppo poco. Nelle istituzioni avete un buon network, non rispettate la reale catena di comando ma sapete come fare per risolvere i problemi. Non avete un network organizzato come quello tedesco, è piuttosto un network personale di cui siamo in parte gelosi». I Paesi «frugali» sono tutti sulla stessa linea. Una fonte olandese è ancora più diretta: «Noi amiamo e odiamo l’Italia. Amiamo le persone, il Paese, il vostro cibo, siete emotivi, passionali, diretti e aperti ma siete caotici e poco organizzati. Siete un Paese conservatore che evita i cambiamenti, non fate le riforme che servono. Nelle istituzioni siete ovunque, c’è un soft power italiano che vi invidiamo e che si basa sulle relazioni personali. Con Draghi, Roma era considerata alla pari di Parigi e Berlino». La sintesi è la foto che mostra Draghi, Scholz e Marcon sul treno per Kiev. A parlare con un austriaco la storia non cambia.
A Sud ci amano di più. «Una faccia una razza», scherza una fonte greca: «Sono arrivato in Belgio per studiare nel 1999 e dopo sei mesi i miei amici erano italiani, spagnoli, portoghesi, maltesi. Gli italiani ti trattano alla pari, con i belgi e i tedeschi hai la sensazione di dover meritare la loro amicizia – racconta —. Con gli italiani ci capiamo al volo, c’è la stessa mentalità, non sempre per risolvere i problemi seguiamo la via formale. Quando c’è stata la crisi del debito ci avete capito e non ci avete umiliato, non ci avete chiesto di vendere l’Acropoli perché eravamo falliti. L’Italia è un Paese che ammiriamo e qui vi invidiamo perché sapete fare rete. Nello sport invece c’è competizione». Per gli spagnoli «siamo come fratelli, due grandi Paesi del Sud», ci spiega un’altra fonte: «In passato avevamo un complesso di inferiorità, ora non più. Il nostro vantaggio è che in Spagna c’è una politica più stabile. Quanto è successo con Draghi ci ha lasciati increduli. Comunque c’è una vicinanza culturale e linguistica».
Anche i portoghesi ci sentono vicini: «Abbiamo una struttura sociale simile – osserva la nostra interlocutrice – basata sulla famiglia e su un forte legame con le comunità locali, l’aspetto umano spesso prevale sul business. Abbiamo però un diverso modo di guardare alle relazioni, a differenza vostra noi separiamo affari e famiglia. Sopravvive lo stigma di una società familista dove non c’è meritocrazia. Però siete bravi come i portoghesi nel trovare soluzioni rapidamente, ma vi consideriamo un Paese poco business friendly».
La conferma arriva dai tassisti. Quando riconoscono la provenienza italiana in molti, quasi tutti del Nord Africa, iniziano a ricordare il periodo felice trascorso nel nostro Paese prima di arrivare a Bruxelles: enfatizzano il calore delle persone, il buon cibo, il sole, la grande solidarietà ma poi aggiungono che è un posto in cui non tornerebbero perché «in Belgio si lavora molto meglio».