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 2022  settembre 08 Giovedì calendario

Intervista a Jorge Herralde. Parla di Inge Feltrinelli

C’è fibrillazione a Mantova per il debutto del Festivaletteratur a che torna ai suoi fasti con centinaia di incontri dal vivo dopo gli anni complicati dal Covid. Festa e bellezza, tra letteratura e dibattiti che fino a domenica toccheranno i nodi cruciali dei nostri tempi.
Farebbe molto bene ai politici sbarcati su TikTok credendo che un video basti a conquistare i voti dei più giovani, farsi un giro da queste parti. Qui come ogni anno si discuterà di ambiente, guerra, scienza, storia, e naturalmente di letteratura che a Mantova rimane il filtro privilegiato per guardare il mondo. La manifestazione si è aperta con l’annuncio del Premio Inge Feltrinelli, un riconoscimento che punta a valorizzare donne e giovani che producano scritti e reportage incentrati sui diritti (c’è già un sito :www.premioingefeltrinelli.it ).
Abbiamo avuto la possibilità di parlare con Jorge Herralde, uno dei membri della giuria, fondatore di Anagrama e presidente del prestigioso marchio editoriale spagnolo passato in mano a Feltrinelli. Herralde, classe 1935, non è riuscito ad essere a Mantova per un contrattempo ma ha accettato gentilmente di raccontare il sodalizio umano e professionale con la sua grande amica Inge, una vera amante dei libri, «una lettrice onnivora e notturna che aveva un talento nel connettersi con i migliori scrittori internazionali».
Come vi siete conosciuti?
«Ci conoscemmo a Cadaqués in una cena organizzata dall’editrice Esther Tusquets. Era estate e io stavo dando vita alle edizioni Anagrama. Inge mi conquistò. Era con il suo compagno Tomás Maldonado, una coppia fantastica. Furono gli anfitrioni della serata.
Dopo pochi mesi ci trovammo per la prima volta alla Fiera di Francoforte».
Alla Buchmesse facevate squadra?
«Mi trascinava nelle sue sfilate tra gli stand. “Andiamo a vedere gliinglesi” e mi portava a conoscere i brillanti editori Tom Maschler e Matthew Evans o al cospetto di George Weidenfeld. Poi era la volta degli americani e ci fermavamo a parlare con Roger Straus o André Schiffrin. Insomma, il gotha dell’editoria internazionale».
Vi incontravate ogni anno a Francoforte?
«Con Inge ci vedevamo in moltissime occasioni: cocktail, pranzi, cene, presentazioni. Alla Buchmesse ma anche al Salon du Livre. A Parigi, l’ultima sera, cenavamo sempre nella Brasserie Lipp: un tavolo a tre, Inge, io e mia moglie Lali. Da lì vedevamo passare amici e conoscenti e potevamo scoprire i libri “segreti”, glisleepers,e partecipare al gossip sulle novità della stagione. Inge, inconfondibile nei suoi abiti sgargianti, era instancabile, in una sola giornata poteva frequentare più cocktail e cene».
Lei una volta ha detto “volevamo cambiare il mondo”.
Può fare un bilancio?
«Cambiare il mondo è un’impresa estremamente difficile. Provarci è stimolante e questo era il nostroproposito. Fu proprio un premio internazionale degli editori nel 1976 a permetterci di intensificare il nostro rapporto. Eravamo entrambi nella giuria, insieme a Christian Bourgois e Klaus Wagenbach. Ci chiamavano “la banda dei quattro”. Con i nostri marchi abbiamo pubblicato autori come Kerouac, Ginsberg, Vila-Matas. Da allora si moltiplicarono i nostri incontri a Milano, Londra, Torino, Barcellona... Ovunque stringevamo amicizie e complicità con gli editori di altri paesi che erano sulla nostra stessa lunghezza d’onda: la ricerca della qualità letteraria, la pertinenza e l’inatteso».
Eravate tutti orientati a sinistra?
«Inge era stata anche un’eccellente fotoreporter, attenta alla difesa dei diritti delle donne e sensibile verso ogni forma di partecipazione agli affari sociali. Per rispondere alla sua domanda, sì, guardavamo a sinistra. Nei primi anni di vita Anagrama pubblicò collezioni di letteratura, libri di cinema, psichiatria e anti-psichiatria, sociologia e antropologia, ma soprattutto libri politici e di sinistra, alcuni dei quali furono presi di mira e castigati dalla censura franchista: ci furono dieci volumi sequestrati, multe, incidenti. Forse al governo qualcuno pensava che Anagrama fosse Dillinger».
Ha trasferito nell’editoria la sua educazione sentimentale familiare?
«Mio padre, che apprezzavo, apparteneva alla destra civilizzata.
Io e i miei giovani amici andavamo in un senso completamente opposto. Ne pagammo il prezzo, ma la lotta contro il Male Assoluto (il franchismo ovviamente) era molto gratificante e si ottenevano risultati tutto sommato soddisfacenti».
Il catalogo Anagrama ha un’aura speciale.
«Siamo orgogliosi di tantissimi autori. La lista è interminabile ma posso suggerire qualche nome, da Patricia Highsmith, che lanciammo in Spagna e di cui abbiamo appena pubblicato iDiari e taccuini, inediti fino ad ora, a Alessandro Baricco, che con Seta fu una gran sorpresa.
E per citare altri italiani: Claudio Magris, Antonio Tabucchi e Roberto Calasso».
È il fiuto a guidare i bravi editori?
«Sono molto importanti l’intuizione, l’informazione accurata, la passione per il lavoro e naturalmente l’attenzione alla qualità letteraria, soprattutto per gli autori emergenti. Noi scommettemmo sul “British Dream Team”, una serie di scrittori britannici di primissima qualità.
Nel gruppetto c’erano Kazuo Ishiguro, Ian McEwan, Hanif Kureishi, Julian Barnes, Graham Swift e Martin Amis».
Si è mai pentito di qualche rifiuto?
«Più che pentirmi, ho sempre rimpianto di non aver potuto incorporare nel nostro catalogo uno degli autori preferiti della mia gioventù: Jorge Luis Borges».