La Stampa, 8 settembre 2022
La fragilità dei padri. Intervista a Hugh Jackman
L’ombra dell’inadeguatezza tormenta i genitori responsabili, quelli che davvero si interrogano sulla felicità dei propri figli. Certe volte le risposte sono vaghe, assolutorie, in linea con il bisogno di tacitare i sensi di colpa, altre volte sono talmente limpide da mettere quasi paura. L’unica certezza, come recita una delle battute di The Son, il film del drammaturgo francese premio Oscar Florian Zeller, ieri in gara, è che «l’amore non basta». Nemmeno quello di Peter, il padre affezionato che Hugh Jackman interpreta nel film con un’adesione emotiva profonda. Alla Mostra, felice di twittare la foto dell’arrivo con la moglie Deborra-Lee Furness, Jackman compie un nuovo passo verso una carriera diversa da quella legata ai ruoli muscolari tipo Wolverine.
Pensa che dopo «The Son» si allontanerà sempre di più dal cinema che le ha regalato la grande popolarità?
«Ho recitato nel ruolo di Wolverine per tanti anni e ne sono felice, certo, riflettendoci, lui è proprio l’archetipo di un certo tipo di mascolinità, anche se, molto di più dei muscoli e della forza fisica, mi ha sempre interessato il suo modo di pensare, la sua mentalità. Nelle mie scelte di carriera non sono mai strategico e, cosa rara, sono stato fortunato perché ho sempre potuto scegliere tra i ruoli che mi venivano offerti. Con The Son mi è successo di avvertire un fuoco, un desiderio forte di interpretarlo, sentivo che potevo essere me stesso. Verso Florian ho provato subito grande fiducia, mi ha lasciato libero di esprimermi, non è stato un lavoro semplice, eppure mi manca ogni giorno e mi piacerebbe poter provare sensazioni simili in ognuno dei progetti che mi coinvolgono. È questo l’oro che ogni attore cerca nel suo mestiere».
La storia di «The Son» mette in luce la vulnerabilità di un padre. Che cosa ha scoperto su se stesso?
«Gli uomini sono fragili esattamente come possono esserlo le donne, ma io sono cresciuto in un’epoca in cui si riteneva che i ragazzi dovessero essere educati in modo da diventare veri uomini, le ragazze, invece, diventavano donne senza particolari problemi. Questo metteva una gran pressione sui maschi, oggi il modo di pensare è cambiato, la ragione per cui ho provato una connessione viscerale con la vicenda di The Son sta proprio nella descrizione della vulnerabilità del padre, nell’idea che vada accettata, esplorata. Non abbiamo fatto prove, ogni giorno ci immergevamo nella storia, è stato un lavoro che mi ha cambiato come attore, come uomo, come padre».
In che modo?
«Ho due figli di 16 e 22 anni, ho imparato a mostrarmi più fragile e avverto in loro, quando lo faccio, un grande sollievo. Non siamo abituati a mostrare quello che abbiamo nel cuore, se riuscissimo a farlo, staremmo molto meglio».
Le è mai successo di avere la sensazione di aver sbagliato con i suoi figli?
«Ho imparato che l’amore certe volte non è sufficiente, soprattutto quando, come accade in The Son, si ha a che fare con problemi di patologie mentali. In questi casi non bisogna aver paura di chiedere aiuto, di rivolgersi a un amico, a un esperto, a un insegnante. Con i miei figli mi succede di sbagliare spesso, nelle cose più grandi e in quelle più piccole, tante volte dico a mia moglie “ecco, ho fatto una cazzata” e mi chiedo quale sia stato l’errore. Saperli ammettere aiuta tantissimo, l’importante è avere una mentalità aperta».
Che cosa si augura che il pubblico colga vedendo il film?
«Spero possa spingere la gente a uscire dall’isolamento, soprattutto quando bisogna affrontare malattie difficili come la depressione. In genere prevalgono la vergogna, il senso di colpa. È giusto, invece, rendersi conto della propria impotenza, lo dico da genitore, il primo passo per empatizzare con le persone è mettersi nei loro panni. Mi auguro che il film serva ad aprire confronti, a ricordarci che non siamo soli». —