La Stampa, 8 settembre 2022
Identità sessuale e apocalisse. Ecco cosa si vede a Venezia
Gli artisti non sono profeti ma rabdomanti, si nutrono del mondo e del mondo rivelano in tempo reale le angosce e le passioni. Meglio e più in fretta della politica, della filosofia e di ogni scienza sul mercato. Alla mostra del cinema di Venezia di quest’anno due temi tengono banco: identità e apocalisse. È intorno a questi due ircocervi – mezzo nevrotici e mezzo reali – che si dibattono le nostre esistenze? Tra queste due polarità – apocalisse e dunque sconfitta da una parte e identità e dunque affermazione di sé dall’altra – ci aggiriamo esausti, in un continuo esaltarsi e deprimersi che ci sfinisce.
Sessuale, nazionale, religiosa, ogni identità si crede di immutabile solidità. E invece non è che un flusso, un movimento, così come quello che ero non somiglia a quello che sarò. Non diversamente dall’apocalisse, che incomberà sulle nostre teste ancora a lungo, proteiforme e sempre incompiuta, come nel meraviglioso film di Artavazd Pelechian, Nature, una sinfonia in bianco e nero, che monta immagini della catastrofe, eruzioni, incendi, trombe d’aria, valanghe e tsunami. Un’ora circa senza neanche una parola, noi e il regista sgomenti e muti di fronte allo spettacolo di una natura imbizzarrita e violentissima. C’è solo un cane, un minuscolo frammento di serenità nel tumulto del montaggio, che osserva distratto e innocente il rovesciarsi del mondo intorno. Uno sguardo creaturale, senza giudizio, quello sguardo su cui poggia la bellezza e quindi la speranza.
La presenza fisica di Artavazd Pelechian alla mostra del cinema è un piccolo miracolo. Quest’uomo nato nel 1938 in Armenia, acclamato e sconosciuto in ugual misura, già protagonista di un documentario diretto da Pietro Marcello (Il silenzio di Pelechian), non ama spostarsi e tantomeno chiacchierare. Deve essere stato il lavoro appassionato di Silvia Jop e gli altri corsari di Isola Edipo che curano da anni uno spazio dedicato all’inclusione e che lo hanno fortemente voluto a Venezia, insieme ai curatori della sezione, Giornate degli Autori. Si sarà fidato di tanta dedizione ed è bello pensare che qualche volte le cose marciano al passo col cuore. Chi volesse vedere Nature, finanziato dalla Fondazione Cartier, potrà farlo a Milano, sarà presto in mostra alla Triennale, insieme ai lavori precedenti di Pelechian, alcuni di quali si trovano già in rete. Ma dal momento che l’apocalisse, l’abbia detto, come l’identità è fluida e mutevole, il film si chiude con un’alba incongrua, un sole che si affaccia da qualcuna di quelle montagne martoriate, sorge da un mare in tempesta. Non lo sappiamo come andrà a finire, sembra dire Pelechian, bisogna resisterete e aspettare di vedere quello che ci sarà di là. L’apocalisse secondo questo gigantesco artista armeno è già qui, c’è sempre stata, perché la natura fa e disfa a suo piacimento, e noi possiamo solo guardare.
L’apocalisse è la natura della Terra, quel che cambia è il nostro sguardo, come nel film Ordinary Failures, anche questo presentato da Giornate degli autori, opera seconda di Cristina Grosan, regista ungherese. Introdotto da una citazione di Donna Haraway, filosofa e disastrologa per eccellenza, che invento perché non ricordo ma che dice più o meno: quando verrà la fine del mondo sarà una buona idea farsi trovare in pace con noi stessi, nella quiete del nostro essere. Ordinary Failures è una di quelle distopie del dietro l’angolo, costruito come Melancholia di Lars Von Trier. La vita sarà identica a quella che conosciamo, fino a un attimo prima della fine, che avverrà in un attimo. Che sia un pianeta che ci schianti come una palla da biliardo o una serie di eventi collegati, che bruciano, fanno esplodere, sbatacchiano, allagano ma è sempre una questione di minuti. Tre storie si intrecciano in questo film, tre storie che l’apocalisse, proprio come auspicava Donna Haraway, districherà e redimerà. Un filo intricato che tirato per un lato si scioglie e diventa una corda sospesa, alla quale appendere la nostra attesa. Una donna, Hanna, incapace di elaborare il lutto per la morte del marito, la madre inquieta di un bambino, Daniel (che ricopre un ruolo simile a quello del cane di Pelechian e infatti indossa una maglietta con la scritta No guilty ) e una ragazzina, Tereza, che finirà per fare pace con la sua identità sessuale riconsegnando il piccolo Daniel alle sue due madri disperate, un attimo prima che il mondo finisca.
Dove Pelechian faceva parlare montagne e tifoni, Cristina Grosan basa la sua narrazione sull’ambiguità e sulle nostre nevrosi. Creando e spezzando legami, che sembrerebbe essere lo specifico umano di questi anni, dando spazio a una ritualità che persino nella sua variante grottesca risulta efficace. Come quando Hanna, dopo aver frequentato invano un gruppo di ascolto, seppellisce un cane robot e in quel gesto, che mima il culto dei morti trova finalmente le lacrime che cercava. La natura e il rito, in questo scampolo di mondo, sono come la malattia e la cura, il terrore e la pace. L’apocalisse è un respiro, ed è forse il respiro che sentiamo da sempre intorno a noi.