La Stampa, 8 settembre 2022
Biografia di Nicola Bellomo a 77 anni dalla morte
È l’11 settembre 1945, poco dopo l’alba: a Nisida (un’isoletta dell’arcipelago flegreo), un plotone d’esecuzione britannico fucila Nicola Bellomo, generale del Regio esercito, condannato a morte da una corte marziale per crimini di guerra. Il rituale è spietato, come si conviene a chi si è macchiato di colpe orribili: prelevato dal carcere (un castello trasformato nell’Ottocento in penitenziario borbonico), il generale viene portato davanti al muro diroccato del vecchio cimitero, con le mani legate dietro la schiena, e fatto appoggiare a uno dei tre pali conficcati nel terreno. Egli rivendica in inglese il suo diritto di ufficiale ad essere fucilato senza bende, ma i soldati non lo ascoltano: gli passano una corda attorno alle caviglie e un’altra attorno alla vita, lo legano stretto al palo, gli coprono gli occhi con uno straccio scuro. Mentre il medico presente gli appunta sul cuore un disco bianco di carta per facilitare la mira, un frate cappuccino lo benedice. Quindi l’ordine del fuoco, la scarica, il capo riverso e la divisa che si colora di sangue.
Quale crimine di guerra ha mai commesso il generale Bellomo per meritare l’inflessibilità della giustizia? La domanda viene spontanea pensando ai «salvati illustri» di quella stagione: Rodolfo Graziani, ministro a Salò, autore dei bandi che decretavano la morte per i renitenti, viene consegnato dagli inglesi alla giustizia italiana, nel 1952 è già libero e poco dopo diventa presidente onorario del Msi; Albert Kesselring, corresponsabile di centinaia di esecuzioni (tra cui la strage delle Fosse Ardeatine), è condannato da una corte britannica alla fucilazione, ma la pena è commutata in ergastolo per intervento del premier Clement Attlee, nel 1954 viene liberato e diventa consulente del cancelliere Adenauer per il riarmo della Germania occidentale; Mario Roatta, imputato per crimini contro i civili, fugge (o meglio viene lasciato fuggire) dall’ospedale militare di Roma alla vigilia del processo e per vent’anni vive senza noie nella Spagna di Francisco Franco; per non parlare dei 1837 ufficiali e funzionari italiani di cui viene chiesta l’estradizione in Jugoslavia, Albania e Grecia per crimini commessi durante l’occupazione 1941-43 e che non vengono né estradati, né imprigionati, né indagati.
La responsabilità di Nicola Bellomo riguarda un episodio accaduto il 30 novembre 1941, quando è comandante della piazza di Bari: due ufficiali inglesi prigionieri, il capitano Playne e il tenente Cooke, cercano di fuggire dal campo di Torre Tresca, ma vengono ripresi poco dopo. Accorso sul posto, Bellomo vuole che i due lo conducano nel punto in cui hanno forzato la recinzione, ma Playne e Cooke, temendo di essere fucilati, tentano una seconda volta la fuga: il generale ordina il fuoco al drappello di soldati che partecipano al sopralluogo e spara egli stesso con la pistola d’ordinanza. Colpito alla testa, il capitano Playne muore sul colpo, mentre il tenente viene ferito alle natiche (curato all’ospedale di Bari, diventa il principale testimone dell’accusa). Sparare contro un prigioniero che cerca di fuggire rientra nelle regole del diritto bellico e questa non è solo la difesa di Bellomo, ma la ricostruzione di una commissione d’inchiesta interna istituita dal Regio esercito poco dopo il fatto. Secondo l’accusa, invece, i prigionieri non hanno cercato una nuova fuga, ma hanno solo fatto un movimento brusco che il generale, nella semioscurità, ha scambiato per fuga; inoltre, avrebbero avuto le mani legate e nessuna possibilità di dileguarsi. Di qui il crimine di guerra.
La vicenda resta sotto traccia per oltre due anni: Bellomo mantiene il ruolo di comandante della piazza Bari e l’8 settembre, al momento dell’armistizio, riesce ad impedire ai tedeschi in ritirata di minare il porto e di distruggerne le strutture. È lui, poco dopo, a consegnare la città intatta al comando dell’VIII armata britannica e a mettersi al servizio degli Alleati: ed è lui ad essere confermato nell’incarico dal generale Montgomery. Il 28 gennaio 1944, però, Bellomo viene arrestato in seguito alle accuse mossegli dal tenente Cooke: viene rinchiuso nel campo per prigionieri di guerra di Padula (presso Salerno) sino alla fine del conflitto, processato a Bari nel luglio 1945, condannato a morte e trasferito a Nisida per l’esecuzione. Il processo, davanti ad una corte marziale britannica, appare irrituale e lo stesso giornalista inglese del Daily Express esprime perplessità: a Bellomo viene negata la possibilità di nominare un difensore di fiducia e viene assistito solo da un ufficiale britannico come difensore d’ufficio; le testimonianze risultano in contrasto con quelle rese due anni prima alla commissione d’inchiesta interna; le dichiarazioni di Cooke vengono accettate senza contraddittorio «perché un ufficiale britannico non può mentire»; i testimoni italiani sono i soldati che hanno aperto il fuoco e hanno interesse a far ricadere la responsabilità su Bellomo.
Inutile discutere della verità giudiziaria, perché servirebbe un altro processo. Il generale Bellomo appare però una vittima sacrificale, colpito da una severità che contrasta con le facili indulgenze di cui troppi altri hanno fruito. Nato a Bari nel 1881 da una famiglia della piccola borghesia, percorre un’ordinaria carriera da ufficiale: non è organico al regime perché privilegia il senso di appartenenza istituzionale, non vanta amicizie altolocate per inserirsi nei «cerchi magici» del Ventennio, sicuramente si crea qualche ostilità per il rigore morale (al comando del corpo d’artiglieria di Napoli segnala inascoltato collusioni e malaffari di chi lo ha preceduto). Il suo arresto nasce dalla denuncia legittima di un ufficiale coinvolto nella vicenda, ma si sviluppa in un contesto che ne determina l’esito a prescindere dall’accertamento della verità.
Sicuramente gli inglesi, nell’estate 1945, hanno bisogno di far vedere alla propria opinione pubblica che sono inflessibili verso chi ha colpito i loro soldati; sicuramente il governo italiano è troppo debole per intervenire, né Bellomo gode di protezioni personali in grado di smuoverne l’inerzia; sicuramente la fine della guerra ha diffuso un’ansia di epurazione che contrasta con la mitezza delle pene. Resta però un dubbio, perché Bellomo è l’unico ufficiale italiano ad essere fucilato per crimini di guerra: davvero era il solo colpevole? Davvero la sua colpa era così orribile? Per paradosso, l’11 aprile 1951, sei anni dopo l’esecuzione, viene decorato con una medaglia d’argento al valor militare per la difesa del porto di Bari dopo l’armistizio. Nei momenti epocali della storia il destino dei singoli appare spesso casuale. Certo è che la vicenda di Bellomo è una pagina dubbia, che misura tutta la distanza tra la verità giudiziaria e la verità storica.