La Stampa, 8 settembre 2022
Il lato conservatore di Giorgia che piace ai disperati
Giorgia Meloni insiste molto sul profilo conservatore del proprio partito e si dice orgogliosa di essere presidente dei conservatori europei. Se la coalizione di destra-centro dovesse vincere le elezioni e Fratelli d’Italia esserne la componente più importante, perciò, uno dei Paesi più popolosi dell’Unione Europea, protagonista fin dall’inizio del processo d’integrazione continentale, si troverebbe ad avere un governo a trazione conservatrice. Ma che cosa vuol dire, nel ventunesimo secolo, essere conservatori? E quale impatto potrebbe avere questa eventuale novità italiana sul quadro politico europeo?
Il conservatorismo, oggigiorno, è al contempo impossibile e indispensabile. È impossibile perché la tarda modernità, col suo relativismo radicale, ha decostruito gli apriori sui quali deve fondarsi un pensiero conservatore. L’ideologia conservatrice ha questo di caratteristico, infatti: àncora l’ordine politico e sociale a un principio non negoziabile, a un dato che gli esseri umani devono prendere per buono così com’è, senza poterlo negare né criticare. Può essere religioso, quel dato: il magistero della Chiesa cattolica, ad esempio. Può essere storico, come la patria. Può essere di carattere naturale, come la famiglia. O può essere una combinazione di tutti questi dati, e di altri.
Ma la tarda modernità corrode irrimediabilmente ogni principio o visione del mondo. Quale cattolicesimo, allora, in società secolarizzate come le nostre? Quale patria, se le patrie non sono altro che comunità immaginate? E quale natura, quando sappiamo che non c’è nulla di più culturale della natura? Da qui l’atteggiamento quasi di scherno che il progressismo, non per caso egemone nel mondo della cultura, riserva ai conservatori, accusati in buona sostanza di voler portare l’acqua col colabrodo. Da qui la sensazione che siano irrimediabilmente superati dalla storia, che vagheggino un impossibile oltre che indesiderabile «ritorno al Medioevo».
Ammesso pure che lo sia da un punto di vista filosofico, tuttavia, l’arroganza della tarda modernità non è fondata né socialmente né politicamente. Per la semplice ragione che il suo universo «liquido», privo di ancoraggi religiosi, storici o naturali e affaccendato in una metamorfosi perpetua, appare invivibile a una gran parte degli esseri umani. È qui che il conservatorismo diviene indispensabile: là dove restituisce, sebbene in una forma assai precaria e provvisoria, qualche fragile punto di riferimento a individui disorientati e spaventati; là dove cerca di rallentare, quanto meno, il ritmo forsennato della metamorfosi perenne. Troppo spesso prigionieri dei propri schemi astratti, oltre che dei loro begli appartamenti nei centri storici delle metropoli, gli intellettuali progressisti si chiedono stupefatti come possano gli elettori dimostrarsi inconsapevoli a tal punto da comprarsi alle urne una famiglia naturale che naturale non è, o una patria costruita a tavolino. E mentre deridono la pagliuzza dell’inconsapevolezza altrui, non si rendono conto della propria trave.
Al centro del conservatorismo di Meloni, prima ancora che Dio e la famiglia, c’è la patria. E qui si pone una questione ulteriore, sulla quale si misurerà l’eventuale proiezione europea delle vicende italiane. La seconda guerra mondiale ha determinato, non soltanto in Italia, la «morte della patria»: il declino dell’idea di nazione come strumento di azione politica. Non per caso, a partire dal 1945, sulla destra dei sistemi politici europei troviamo spesso un partito democratico cristiano, il cui conservatorismo si appoggia a Dio e alla famiglia più che alla patria. E ancora non per caso proprio i democristiani sono all’origine del processo d’integrazione europea, il cui scopo è, se non di espungere del tutto il nazionalismo dal Vecchio Continente, quanto meno di addomesticarlo a tal punto da renderlo inoffensivo.
Se lo osserviamo da questo punto di vista, il ritorno della nazione che segna i nostri tempi, e del quale l’ascesa di Meloni è una spia e un effetto, può essere interpretato a sua volta come una conseguenza del lento appassire della tradizione democristiana, del popolarismo europeo. Indebolito dall’avanzare della secolarizzazione, esitante nel salvaguardare le radici cristiane del processo d’integrazione continentale, dopo il 1989 il popolarismo ha fatto gran fatica a svolgere quella funzione di «freno» del rullo compressore della tarda modernità, di difensore di qualche estremo punto di riferimento, seppur precario e provvisorio, che sarebbe propria di una forza politica collocata a destra del centro.
Esposti senza più difese all’invivibilità della metamorfosi perpetua, nella loro disperazione gli elettori hanno preso a seguire leader e partiti che davano almeno ascolto alle loro angosce. E che, con un termine quanto mai impreciso, abbiamo chiamato «populisti». I populismi si sono accavallati e rimpiazzati l’uno con l’altro, e infine, inevitabilmente, sono emersi quelli più coerenti e strutturati. I quali, altrettanto inevitabilmente, sono andati a ripescare la patria. Che sarà anche una comunità immaginata distrutta dalla catastrofe del 1945, ma rimane pur sempre una presenza storica plurisecolare, profondamente radicata nella psiche collettiva e assai difficile da sostituire.
Il ritorno del conservatorismo nazionale in Italia e in Europa pone talmente tante questioni, e così rilevanti, che in coda a quest’articolo posso soltanto elencarle. In buona sostanza, apre la partita della ristrutturazione della destra europea e del suo impatto sull’Unione. Bisognerà vedere, innanzitutto, se il conservatorismo italiano saprà darsi una struttura non episodica, o se il suo successo si rivelerà l’ennesimo anello effimero nella catena dei populismi. L’operazione è tutt’altro che banale: gli italiani non possono più di tanto guardare al conservatorismo anglosassone, prodotto dalle nazioni che hanno egemonizzato l’evo moderno e vinto la seconda guerra mondiale; né alla Francia, resa unica dal gollismo; tanto meno all’Europa orientale, all’Ungheria o alla Polonia, la cui storia è così diversa dalla nostra.
Bisognerà vedere quale rapporto il conservatorismo stabilirà coi populisti, in secondo luogo, dei quali capisce e condivide la rabbia ma non necessariamente le ricette e il dadaismo. Quale rapporto coi popolari, in terzo luogo, dai quali lo allontana la patria, ma ai quali lo avvicinano Dio e la famiglia. Infine, e soprattutto, dovremo capire come una prospettiva esplicitamente nazionale possa essere integrata nella costruzione europea. Un edificio che è sì potentemente attraversato dagli interessi nazionali, ma che resta in piedi grazie alla loro idealistica, e al contempo ipocrita, rimozione. —