Corriere della Sera, 7 settembre 2022
Giani Amelio parla del suo film
VENEZIA «Com’è stato possibile che nel 1968 un uomo – il poeta, drammaturgo, scrittore e mirmecologo Aldo Braibanti, ex partigiano – sia stato condannato a 9 anni di prigione per plagio, accusato di aver sottomesso alla sua volontà, psichica e fisica, un giovane, solo perché si amavano? Io c’ero, ho assistito a alcune udienze di quel processo osceno, da Inquisizione. Anche se il reato è stato cancellato – se parliamo di plagio pensiamo a Al Bano e Micheal Jackson – in sostanza è cambiato poco. Dietro la facciata delle unioni civili i gay sono ancora discriminati, l’omosessualità resta un tabù».
Si infervora e la butta sul personale Gianni Amelio: «Ho scoperto le stesse fragilità di Braibanti: ha giovato al film ma non a me. Ho vissuto una storia d’amore tormentata. Non sono andato in carcere come lui ma sono chiuso in un mio carcere personale». È in concorso (nel 1998 fu Leone d’oro con Così ridevamo) con Il signore delle formiche con Luigi Lo Cascio, Ennio Germano, Leonardo Maltese e Sara Serraiocco, sulla vicenda dell’intellettuale di Fiorenzuola d’Arda (in sala da domani con 01).
Lo ha scritto con Edoardo Petti e Federico Fava, basandosi sugli atti del processo. Ma pescando anche da ricordi personali. «Mi addolorava sentire l’indifferenza quasi generale. Un silenzio pietoso, rotto solo dai radicali e un gruppo sparuto di socialisti che protestavano di fronte al Palazzaccio, e da qualche appello sui giornali». Tra i firmatari anche Marco Bellocchio, la sua Kavac coproduce il film con Itc, Tenderstories e Raicinema. «Il processo a un invertito, così si diceva, faceva paura. Ci andai perché sentivo ansia e angoscia al pensiero di poter essere al suo posto e subire le stesse violenze».
L’accusa parlava apertamente di demonio. La famiglia del giovane lo fece rinchiudere in manicomio, per guarirlo dalla «devianza» fu sottoposto a cure atroci, elettroshock compreso. «Fu trattato con una violenza distruttrice. Ero in aula il giorno in cui la madre testimoniò contro Braibanti e raccontò di come avesse portato il fratello più grande, che era comunista, da Padre Pio. Disse che l’aveva guarito». Nel film anziché Giovanni Sanfratello, lo chiama Ettore. «Non volevo concentrarmi su un caso singolo, ma che questo processo alle streghe fosse l’emblema di una mentalità diffusa nella provincia italiana degli anni Sessanta. Loro si amavano. E non era vero che era minorenne. Ma serviva a far prevalere l’idea del professore vizioso che porta sulla strada del vizio un giovane innocente».
Nessuna intenzione, assicura Amelio, di santificare Braibanti. «Era un uomo complesso, allora poco conosciuto perché aveva pubblicato poco. Le cose che scriveva erano oggettivamente difficili, non cercava di risultare simpatico. Meno che mai nel processo, dove all’inizio rimase in silenzio. Arrogante ma non superbo. Lo ricordo incredulo di fronte alle parole dell’accusa, di violenza inaudita. Mi sono autocensurato: non ho messo una cosa accaduta: alla fine dell’arringa il giudice scese dello scranno e abbracciò il Pm. Un verdetto già deciso, è contro la legge».
Sta negli atti del processo (già alla base del documentario di Carmen Giardina, Massimiliano Palmese) mentre il personaggio del giornalista dell’Unità di Germano è un’invenzione. «Non è una persona precisa, né il direttore del giornale era realmente quello. In realtà il Pci se ne tenne fuori, come da tutte le battaglie sui diritti». Non a caso è un militante di quel partito a dire «Un gay ha due scelte: o si cura o si ammazza». «L’ho voluto con accento calabrese, la sentii io da ragazzo. I calabresi si offenderanno, sono permalosi». Ne aveva dato prova lui stesso in conferenza, rinfacciando a malo modo a un giornalista il titolo su una critica a Hammamet. Ma quella è un’altra storia.