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 2022  settembre 07 Mercoledì calendario

Baricco riparte da Mantova

Impossibilenonparlare subito di quello che gli è successo, non chiedergli come sta. Alessandro Baricco ha una bella voce, piena e ridente. «Non pensavo di essere così in forma». Ormai sono passati mesi dall’annuncio della leucemia e dal trapianto. Perlopiù in questo tempo si è riguardato,ma ora torna davantialsuo pubblico: «Ho scelto Mantova per ricominciare. Mi sembrava un bel posto per ripartire, è un festival a cui sono molto legato». In libreria è appena arrivato un suo nuovo saggio intitolato La Via della Narrazione (Feltrinelli), poche pagine molto speciali, brevi folgorazioni sulla scrittura e i suoi segreti che rielaborano il succo di una lezione alla Scuola Holden. Al Festivaletteratura oggi l’argomento sarà però Beppe Fenoglio: «Lo amo molto, per le mie grane houn po’ trascuratoil suo centenario».
L’annuncio della malattia ha scatenato un’ondata incredibile di affetto. Se lo aspettava?
«Mihamoltostupito,èstataunasensazione bellissima.Èstrano,attraversiamoviteintere,anche professionalmenteparlando,senzasapereinrealtà checosaabbiamoscatenato.Cisonoalcuniregali chequest’esperienzamihafatto:sicuramenteunoè questo».
E gli altri?
«Ehhhmelitengoperme( ride ).Nonèilcasodi parlarnepiùditantomafrancamentel’hotrovata un’esperienzafantastica.Possodireufficialmente chesonounuomomoltofortunato,perchésono quachemipreparoperandareaparlarea Mantova».
Torna anche in libreriacon questo piccolo saggio. Il titolo fa pensare alle “Vie dei Canti” di Chatwin.
«Alludealfattochelanarrazioneèuntao,comeil tiroconl’arcoolacerimoniadeltè.Èunaviainsenso orientale,unadiquelledisciplinefisicheche portanoauncompimentospirituale».
Unaformadimeditazione?
«Èungestochesicomponeditregesti:alprimo diamoilnomedistoria,alsecondoditramaealterzo distile.Quandoquestetrecoseaccadonoinun unicoflusso,c’èlanarrazione.Nellinguaggio comuneconfondiamospessostoriaetrama,mala storiaèsferica,èunospazio,uncontinente,ela tramaèlalineaferroviariacheloattraversa.L’unico trattovagamentemisteriosoèquellodellostile, senzailqualelanarrazionerimaneorfana,senza voce».
Isocial hanno liberato lanarrazione di massa, trova che lo stile ne abbia risentito, che si sia appiattito?
«Lostileèunacosarara,certo,mamisembracene siapiùoggidiquandoerogiovane.Perfinoalcuni tiktokerhannounavoceirripetibile,tuttaloro».
E tra gli scrittori, qualcuno l’ha conquistata di recente?
«Sonorimastocolpitodalromanzo Gliinvisibili di PajtimStatovci,pubblicatodaSellerio.Hatutto: trama,stile,voce».
Sipuò insegnarea scuolaad avere unostile?
«No,malascuolapuòaiutareariconoscerlo,può insegnareacantaremeglio.Inalcunicasipuò domarlo.Lostileèunaspeciedicavalloselvaggio,va ricondottoalcontrolloaltrimentirischiadi esplodere».
Al di là di tutto, il talento rimane misterioso?
«Hovistopersonecheavevanounavocefantastica, unostilepazzescochenonriuscivanoamettere insiemeunatrama.Cosìcomec’ègentechehadelle storieintestabellissimemanonsatradurleinun linguaggio.Purtroppocisonoanchetantiragazzi poveridistorie».
Trale nuovegenerazioni?
«NonimmaginaquantestorieholettoallaHolden sui“momentiindimenticabilipassaticonilnonno”. Comeèpossibilecheunragazzonell’immenso fondodellasuamentetrovisoloquellastoria?».
Comese lospiega?
«Mipareundifettodell’Occidente.Auncertopunto mièaccadutodiandareainsegnareinsiemeadaltri dellaHoldeninColombiaesiamorimastisecchi, perchéiragazzicolombianieranograndinarratori.
Ingeneraleimondipiùacerbi,piùpoveri,più avventurosi,piùaperti,piùris chiosi sono carichi di storie. L’Europa è un continente molto vecchio, molto viziato, molto safe,molto normatizzato. C’è un’educazione democratica ormai spessissima,ingombrantissima. Pesa naturalmente il fatto che qui c’è gente che ha inventato il romanzo, è un po’ difficile rilanciare quando hai avuto quei padri».
La cancel culture e l’esasperazione del politicamente corretto fanno parte di questo processo?
«Il controllo dispotico sul linguaggio non fa bene ai narratori. Le democrazie in Europa nel corso del tempo hanno costruito un modello di educazione che riduce al minimo i rischi. Si sacrificano quote di libertà per cercare di costruire dei cittadini morbidi. Qualsiasi movimento di insofferenza è demonizzato a priori. I narratori invece devono essere selvaggi, brutali, indipendenti, liberi, spinosi, fastidiosi.
Abbiamo perso la forza impetuosa dell’Italia post-bellica».
Quell’energia che c’era in autori come Fenoglio?
«È stato un grandissimo costruttore di trame, molto più moderno di tutti quelli che scrivevano ai suoi tempi. Quando ha presentato all’Einaudi La paga del sabato, Vittorini e Calvino glielo hanno bocciato, sostenendo che era troppo cinematografico. E questo la dice lunga. Fenoglio era in anticipo di trent’anni. In Italia abbiamo dovuto aspettare la mia generazione, quella di Sandro Veronesi e Susanna Tamaro, perché il cinema contaminasse in maniera positiva la letteratura. Fenoglio ha uno stile fantastico, una lingua che non esiste, vagamente dialettale, petrosa, dritta. La sua voce la riconosci subito. Come succede per Cormac McCarthy o Thomas Bernhard, ti restano dentro alcune mosse che ti viene da imitare, è capitato anche a me. Il suo insuccesso è largamente attribuibile all’incapacità di marketing dei piemontesi. La sua era una forma di aggressività timida. Mi riconosco in lui anche antropologicamente».
Che lei non sappia promuoversi non è poco credibile?
«Sembra strano dirlo ma francamente penso di sì. Ho fatto tante cose ma parlo poco. Non sono mai andato al premio Strega per esempio. Da giovane mi scrissero per invitarmi a votare nella giuria, risposi “no grazie”. Non ho mai voluto partecipare, non è la mia tazza di tè. Fare il proprio mestiere senza preoccuparsi della società letteraria è molto piemontese. Forse è un misto di arroganza e timidezza, una ribellione venata di paura».
È anche poco attivo sulla piazza social.
«Ho aperto un mio profilo Instagram per un anno durante la scrittura diThe Game, ma scaduto l’esperimento con grande felicità l’ho chiuso. Proteggo la mia vita».
La malattia però l’ha annunciata in Rete.
«Certo, ogni tanto devi dare una grande notizia e la dai. Ma quello non è il mio ritmo, ho un senso della privacy, della riservatezza che custodisco».
Per queste ragioni non ha mai scritto autofiction?
«Il solo libro in cui ho raccontato delle storie che appartengono al mio mondo familiare è
Emmaus, che mi è costato un’enorme fatica. Per il resto ho scritto di me in modo indiretto».
E da lettore come giudica chi racconta solo di sé?
«Carrère è un grande, uno scrittore che ammiro moltissimo, gli invidio il giro di frase, la vitalità, ma confesso che a volte mentre leggo i suoi libri mi vergogno per lui».
Racconterà mai la malattia?
«Forse tra vent’anni scriverò la storia di un postino viennese del 1921 e là dentro ci sarà quello che ho vissuto, chissà».
Nel nuovo saggio cita Lacan. Scrivere è un processo psicoanalitico?
«È un luogo comune pensare che scriviamo solo ciò che abbiamo vissuto e censuriamo. In realtà narriamo la parte mancante di noi, quella che non siamo riusciti a portare a compimento. È la pagina bianca della nostra esistenza che scriviamo, il futuro. In questo senso il gesto di narrare è un tao. È un rito quotidiano, come lo yoga, come respirare. Presume una cura, una lentezza, una pazienza. E si può imparare, proprio come il tiro con l’arco».
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