la Repubblica, 7 settembre 2022
Una vita con Lucho Sepúlveda
Pubblichiamo alcuni brani del libro che la moglie di Luis Sep ú lveda ha dedicato alla loro vita insieme
Nel 2020 la pandemia arrivò in Spagna e raggiunse la nostra casa affondandola nel lutto perenne, prendendosi il mio Lucho, il mio punto di riferimento nel mondo, il mio complice, il mio amore, il mio compagno: in quel momento cominciai a scrivere questa storia, con tutte le sue luci e le sue ombre, come devono essere le storie di due persone che si amano e condividono i sogni.Scrivo per avere e conservare memoria, perché senza memoria non c’è futuro; scrivo per non dimenticare che il terrore dell’inferno è qui sulla terra mentre viviamo in un’eterna lotta fratricida tra il bene e il male. Scrivo perché le nostre uniche armi sono un foglio bianco che aspetta di accogliere e trasmettere storie fantastiche, di portarci a conoscere altre realtà, altri sogni più o meno simili ainostri, e una penna che può ristabilire la giustizia e l’equità. E perché non bastano mai le storie per raccontare il polso della vita, l’intimità, i chiaroscuri in cui i grandi eventi si confrontano con le piccole cose, con la quotidianità del tempo e dello spazio.
Uno dei miei poeti di riferimento, catalano, Joan Margarit, una volta ha risposto così all’eterna domanda latente e ossessiva sulle ragioni dello scrivere. Ha detto senza alcun imbarazzo: Scrivo perché sono ancora innamorato di mia moglie. Una buona ragione, una delle tante, per interpretare il mondo, l’amore, anche se a volte ci sembra poca cosa.
Poche settimane dopo il giorno terribile della sua morte, io e mio figlio iniziammo a riordinare la sua vecchia scrivania, con i suoi effetti personali. Era un compito ingrato, straziante.
Ci stavamo addentrando per la prima volta in un terreno delicato. Lucho era convinto di avere un ordinetutto suo, ed era, in effetti, un ordine caotico, che solo lui poteva decifrare e interpretare. Scatoloni su scatoloni di manoscritti spesso incompiuti, alcuni a uno stadio molto avanzato, altri appena abbozzati, le prime pagine di un qualche progetto letterario successivamente abbandonato. Solo lui sapeva per quale motivo. Tra le scatole e i manoscritti c’erano le poesie. Testi che forse qualcuno aveva pubblicato. Diverse stesure di uno stesso componimento su cui evidentemente tornava, ogni tanto, per rivederlo e rielaborarlo e poi, di nuovo, dimenticarlo. Lì era tracciata la geografia emotiva ed esistenziale del suo passaggio in questo mondo.
Differenti sfumature del sentire, diverse età, amori e disamori, le vere passioni, i dolori, la felicità raggiunta, la mappa delle sconfitte.
Tornavo così al punto di partenza, con le sue poesie su fogli stropicciati e ingialliti ritrovavo il poeta che avevo conosciuto e amato.
***A volte, quando eravamo soli nella nostra casa di Gijón nelle parentesi di tempo in cui eravamo liberi dalla scrittura o dai comuni lavori domestici come pulire e spostare mobili, portare a spasso il cane, fare un po’ di giardinaggio, guardare il telegiornale, ci piaceva giocare come scolaretti monelli durante la ricreazione.Io lo rincorrevo per tutta la casa e lui cercava di nascondersi, a volte in un armadio, dietro una porta o in un angolo, cosa impossibile data la sua stazza, per sfuggire alle mie mani che cercavano di prenderlo e di toccargli il sedere.
Chi ci avesse visto avrebbe faticato a credere ai propri occhi: una piccoletta come me che inseguiva un marcantonio come Lucho, che non si voleva far toccare, finché io non la spuntavo e finivamo abbracciati a ridere a crepapelle, fino alle lacrime.
E poi ci piaceva ballare il tango, nelle notti più tranquille.
Anche quella era una lotta, ci ingarbugliavamo con i passi e allafine, sfiniti, sceglievamo un buon film da vedere alla televisione.
***Lucho non ha mai saputo organizzare niente, anche se si vantava sempre di saperlo fare.Nelle due occasioni in cui ci presentammo all’anagrafe civile per unirci in matrimonio, fui io a portarcelo, lui era sempre troppo occupato a costruire sogni per se stesso e per gli altri. E meno male che era così.
La sua maggiore occupazione era sedersi al computer che aveva rimpiazzato la vecchia macchina da scrivere.
Subito dopo, in ordine di priorità, venivano i suoi animali, gatti e cani, e il giardino anarchico, dove cresceva rigogliosamente una miriade di semi provenienti da ogni latitudine.
Araucarie, calicanti, ortensie, meli, susini, sotto l’immancabile sguardo severo di Garibaldi, il guardiano del nostro giardino, il busto che avevamo ricevuto increduli una mattina in un’enorme cassa di legno che proveniva, naturalmente, dall’Italia.
Qualche mese prima del suo settantesimo compleanno decidemmo di festeggiarlo e alla grande.
Lui desiderava riunire tutti i figli, i nipoti, le nuore e l’unico genero, il 4 ottobre 2019.
C’era anche Daniel Mordzinski che scattò le migliori fotografie dei nostri sei figli finalmente riuniti.
Furono tre giorni di festeggiamenti a Gijo’n, a casa nostra.
Ma Lucho voleva festeggiare anche con gli amici, benché fosse impossibile riunirli tutti. Così, nel frattempo, io organizzavo un evento che doveva seguire a ruota la celebrazione famigliare: l’11 ottobre invitai tutti gli amici di Gijón, Madrid, e Göteborg.
Il 21 ottobre andammo a Parigi per il compleanno che gli aveva organizzato la sua casa editrice, da lì raggiungemmo Milano e infine, due settimane dopo, arrivammo a Lisbona. In tutti questi posti venne accolto e festeggiato con grandi dimostrazioni di affetto. Gli dedicarono discorsi pieni di emozione e i suoi piatti preferiti. A Milano non mancarono la torta di compleanno di cocco e dulce de leche, preparata secondo la ricetta di sua madre che io avevo seguito scrupolosamente a ogni ricorrenza, empanadas cilene e pisco sour. In sottofondo suonava il bandoneón di Piazzolla, Adiós Nonino. Il tutto era perfettamente coordinato.
Vidi Lucho veramente commosso, con gli occhi pieni di lacrime. Prese il microfono e, come era solito fare in queste occasioni di grande impatto emotivo, ringraziò per quei momenti unici e poi ci dedicò uno di quei racconti che, da quel mago che era, tirava fuori dal cilindro, solo per vederci tutti sorridere incantati.
Non li avrebbe più rivisti.
Sembrava presagire che si avvicinava la fine e che per questo avesse deciso di congedarsi da tutti i suoi amici più cari. E lo disse anche ad alta voce: «Occhio, perché certi omaggi di solito si fanno a chi sta per morire!». E rideva, rideva compiaciuto. Se avessi immaginato quello che ci aspettava al nostro rientro in Spagna due mesi dopo, avrei fatto di tutto per conservare quei momenti di amicizia e allegria e per rimanere in quella bolla protetta il più a lungo possibile.