La Stampa, 7 settembre 2022
Intervista a Dacia Maraini. Parla della sua Cenerentola
«Penso che Dio non si sia accorto che esisto», dice di sé la Cenerentola scritta da Dacia Maraini, una rivisitazione contemporanea della fiaba più eterna che c’è. La fiaba più conosciuta, la più amata e anche la più maltrattata, quella che vede trasformato il nome della sua protagonista nel sinonimo più frequente di sguattera, ultima delle ultime. Nel pieno spirito di Cenerentola, però, c’è pure lo splendore della rinascita, c’è il rimettersi al mondo, osare l’inaspettato quando niente sembra possibile tranne il nulla che ti è stato destinato. Cenerentola è la storia per antonomasia del riscatto delle donne, criticata perché la soluzione storica proposta per fuoriuscire dalla subalternità è il matrimonio, tanto che più volte questo dettaglio è stato ritenuto invecchiato, poco aderente alla vastità di sogni che oggi si possono mettere sotto gli occhi di una ragazza. Non poteva tener conto anche di questo la rivisitazione di Dacia Maraini, nel cui teatro la politica ha sempre convissuto con la poesia.
Dario Fo, nella prefazione a Il sogno del teatro, un libro in cui Maraini si racconta a Eugenio Murrali, ha scritto: «Dacia ha cominciato a fare teatro in una cantina, noi abbiamo recitato in fabbriche occupate, capannoni dismessi, Case del Popolo, chiese sconsacrate, manicomi e anche in piazze zeppe di operai in sciopero; Dacia ha fatto tanto teatro di strada, nei quartieri popolari di Roma, davanti a un pubblico anch’esso non convenzionale e trattando temi a noi cari, come quelli del disagio sociale e delle ingiustizie. Un teatro in cui i protagonisti erano persone comuni, matti e prostitute. Un teatro fatto per la gente, con la gente». Così, nello spettacolo che va in scena ad Arona, Cenerentola va ad aggiungersi alle sue storiche personagge, a Clitemnestra, Maria Stuarda, Caterina da Siena, ma anche alle prostitute e alle cameriere cui ha sempre dato voce. Qui Cenerentola si fa personaggio altissimo e umilissimo, voce che stona e rinasce, luce irriverente con un piede fuori dall’ombra in cui vorrebbe spingerla la storia.
Dacia, che Cenerentola è la sua?
«È la storia di una ragazza umiliata ma, anziché finire relegata in cucina, subisce un altro tipo di marginalizzazione, viene mandata dalle sorellastre a far aggiustare il motorino di una di loro che ha i freni rotti».
Una forma di esternalizzazione di quello che, nella Cenerentola tradizionale, poteva essere un incidente domestico. Come dire che il pericolo stavolta è fuori casa, non dentro.
«Già, e poi bisogna considerare chi è questa Cenerentola, cosa è il mondo per lei. Io l’ho immaginata come un’immigrata, suo padre è morto schiacciato da un camion e sua madre si è messa a fare la lavandaia, ma quando il fiume si prosciuga lei non ha più lavoro, è costretta a partire lasciando alcuni dei suoi figli e portandone con sé altri, tra cui lei. Il fratello muore durante il viaggio, la madre viene violentata, ma infine arriva a destinazione insieme alla figlia. Ed è qui che entrano in scena un’altra famiglia e nuovi problemi».
La fata ricorda a Cenerentola, e anche agli spettatori, che il mondo dall’epoca dei fratelli Grimm non è cambiato: c’erano anche allora donne stuprate dopo aver perso i mariti, costrette a viaggiare per trovare un posto sicuro dove stare.
«Ho voluto trasporre nell’oggi ciò che è nell’anima stessa della fiaba».
Il suo è un testo autoriale.
«Il teatro italiano si è concentrato sulla regia tralasciando la drammaturgia, e questo è un errore. Altrove il drammaturgo segue le prove, è parte della compagnia; è da lì che parte tutto. Se lei oggi guarda i cartelloni sono tutti adattamenti di grandi autori, ma il testo scritto per la scena è un’altra cosa».
In questa Cenerentola le parole costituiscono uno degli elementi di uno spettacolo polisensoriale, si muovono insieme ai corpi, ai suoni, alle immagini.
«Ho scritto appositamente per un’artista, Monica Maimone, che fa un lavoro straordinario di visione. Tutti i contribuiti sono originali: ciascuno ha messo un suo sguardo e questa coralità è il bello del teatro. Si lavora insieme, lo spettacolo è una risultante di questa polifonia.
Il teatro nasce come luogo centrale della polis. Oggi si fatica a portarci le persone?
«No, io non vedo questo. Si fa più fatica col cinema, adesso che tutti possono vedere tutto da casa, ma il teatro è un’altra cosa, e adesso, finite le restrizioni della pandemia, gli spettatori stanno tornando, c’è bisogno di confrontarsi con i corpi della scena».
Al centro dello spettacolo c’è la disabilità femminile.
«Siamo circondate dalle storie di queste atlete, donne che portano i loro corpi sotto i nostri occhi con arti ricostruiti che permettono loro di gareggiare: ecco, pensavo a loro, ai successi che hanno raggiunto ma soprattutto alla possibilità che si sono date di esprimersi ed essere loro stesse: questo conta».
Cenerentola trova sé stessa grazie a una dottoressa che le impianta una protesi.
«L’amore che la fa rinascere è la fiducia nelle sue stesse capacità».
Le basta un altro amore, quello per sé, e al matrimonio preferisce la possibilità di gareggiare a Helsinki. Rifiuta di sposare il principe azzurro che, peraltro, si chiama Gioioso: la gioia ritorna, mentre di solito si pensa alla rabbia come sentimento che scatena la trasformazione.
«Dalla rabbia si può partire, ma poi genera una forma di acquiescenza. Pensi a come si è trasformata in assenteismo e qualunquismo, a quanti non andranno a votare alle prossime elezioni, è come se dicessero: il mio voto non esiste, il mio voto è il voto degli altri».
Forse l’autenticità è somigliare all’immagine più intima e segreta che si ha di sé. Nonostante le tragedie affrontate, Cenerentola rinasce con gioia. Mi ha fatto pensare a Bebe Vio.
«La gioia è fondamentale, anche per le battaglie politiche. Non dovremmo dimenticarlo mai».